La sera di domenica 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta stava facendo ritorno a Palermo dopo aver trascorso il fine settimana nella natìa Canicattì, dove aveva partecipato al battesimo di un nipotino. Viaggiava a bordo della sua auto, una Lancia Prisma grigia, insieme al figlio Stefano Saetta, di 35 anni. Intorno a mezzanotte, mentre percorreva la Strada Statale 640 Agrigento-Caltanissetta, nei pressi del viadotto Giulfo, la loro vettura cadde in un’imboscata mafiosa preordinata nei dettagli. Un’auto BMW con a bordo un commando di sicari affiancò la Prisma del giudice e aprì il fuoco con due mitragliette calibro 9 Parabellum. Una raffica di proiettili investì la macchina, facendola sbandare: l’auto di Saetta uscì di strada e andò a sbattere contro il guard-rail. A quel punto i killer fermarono la BMW, scesero e si avvicinarono all’auto ferita: con fredda brutalità continuarono a sparare da distanza ravvicinata contro il giudice e suo figlio, crivellandoli di colpi e assicurandosi che fossero morti. In totale furono esplosi 47 colpi di arma da fuoco, uno scenario da guerra. Subito dopo, i sicari si dileguarono: la BMW utilizzata, risultata rubata qualche giorno prima ad Agrigento, fu ritrovata incendiata in una campagna a circa 2 km dal luogo dell’agguato. Si scoprì in seguito che l’auto era stata rubata da un piccolo criminale che venne poi eliminato dalla mafia, nell’ottica di eliminare testimoni scomodi.
La scena del delitto apparve agghiacciante ai primi soccorritori. L’abitacolo della Lancia era devastato dai colpi; e in mezzo ai vetri rotti e ai bossoli risuonava ancora l’eco di una musica alla radio, pare fosse la canzone “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, rimasta a suonare nel silenzio dopo la strage. All’interno dell’auto si trovavano i corpi senza vita di Antonino e Stefano Saetta. Il corpo del giudice venne rinvenuto riverso sopra quello del figlio, quasi in un estremo gesto istintivo di protezione paterna. Quest’immagine struggente, un padre abbracciato al figlio nel momento della morte, ha dato anche il titolo a un documentario su di loro, dal titolo L’abbraccio, ed è rimasta scolpita nella memoria di chi giunse sul posto. I due vennero uccisi sul colpo dalla pioggia di proiettili mafiosi. Le autorità accorse poterono solo constatare il duplice omicidio. Il magistrato Antonino Saetta, all’età di 65 anni, diventava così l’ennesimo caduto nella lotta alla mafia; con lui, innocente e senza altra colpa se non quella di essere suo figlio, moriva anche il giovane Stefano. Entrambi furono poi sepolti insieme nel cimitero di Canicattì, la loro città d’origine.
Il duplice delitto suscitò sdegno e allarme nel Paese. Per la prima volta la mafia aveva assassinato un magistrato giudicante, un giudice di Corte d’Assise, oltrepassando un ulteriore limite. Giovanni Falcone, commentando a caldo l’accaduto, non ebbe dubbi sulla matrice e le finalità: “È un’esecuzione decretata dai Corleonesi, e non averlo ucciso a Palermo è solo un tentativo di sviare l’attenzione verso le cosche locali. La decisione viene da lì, e secondo me ha a che fare sia con il processo Basile che con il Maxi”. Falcone intuì dunque immediatamente che Saetta era stato eliminato in quanto giudice scomodo per Cosa Nostra, sia per le condanne appena inflitte, quelle relative all’omicidio Basile),sia in vista del maxi-processo d’appello. Inoltre, uccidendolo insieme al figlio, la mafia lanciava un segnale di totale spietatezza: nessuno sarebbe stato risparmiato. Come osservò anni dopo un alto magistrato, “la mafia volle lanciare il messaggio che nessuno era al sicuro, nemmeno un giudice”.
Chi era Antonino Saetta
Antonino Saetta nacque a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 25 ottobre 1922. Entrò giovanissimo in magistratura nel 1948 e costruì una carriera esemplare, distinguendosi per equilibrio, rigore e profondo senso dello Stato. Negli anni ’70 servì fuori dalla Sicilia: fu consigliere alla Corte d’Assise d’Appello di Genova (1976-1978), dove ebbe modo di occuparsi anche di terrorismo rosso e di casi complessi come il naufragio doloso della nave Seagull. Successivamente tornò nella sua terra, ricoprendo ruoli di crescente responsabilità in ambito giudiziario. Tra il 1985 e il 1986 fu Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, ed è in questo periodo che si trovò a giudicare importanti processi di mafia per la prima volta nella sua carriera. In particolare, presiedette il processo per la strage in cui era stato ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici: in quell’occasione sul banco degli imputati sedevano boss del calibro dei fratelli Michele e Salvatore Greco di Ciaculli, all’epoca potenti capimafia ancora incensurati. Nonostante forti pressioni e tentativi di condizionare il verdetto, Saetta guidò la Corte con fermezza, portando a condanne pesantissime: in appello vennero confermati gli ergastoli per i Greco e addirittura aggravate le pene per altri imputati rispetto al primo grado. Il giudice stesso segnalò in quella occasione di aver respinto personalmente ogni approccio illecito: tentativi di “aggiustare” il processo Chinnici furono da lui denunciati ai Carabinieri, a riprova della sua incorruttibilità.
Nel 1987 Antonino Saetta venne trasferito a Palermo, assumendo l’incarico di Presidente della I Sezione della Corte d’Assise d’Appello. Sin dall’inizio manifestò preoccupazione per quella assegnazione: temeva, con lucidità profetica, che esporsi in prima linea nei maxi-processi di mafia lo avrebbe messo in pericolo. In effetti aveva tentato di farsi destinare a una sezione penale ordinaria, meno esposta, scrivendo lettere formali al Presidente della Corte d’Appello di Palermo Pasquale Giardina. In una di queste missive, nel giugno 1987, Saetta ricordava di aver già presieduto a Caltanissetta un difficilissimo processo di mafia, quello relativo alla strage in cui perì il consigliere Chinnici, e chiedeva di non doverne subito affrontare altri, “senza con ciò pretendere di sottrarsi al proprio dovere”, ma evidenziando che quella esperienza lo esponeva a rischi maggiori di altri magistrati. La richiesta però rimase inascoltata: il Consiglio Giudiziario respinse l’istanza e confermò Saetta alla guida della Corte d’Assise d’Appello, ritenendo prioritario coprire proprio quel ruolo. Con amara ironia, nelle motivazioni del rigetto si affermò addirittura che assegnare Saetta altrove avrebbe creato “grave disagio” nell’organizzare i processi di mafia, dato il numero considerevole di dibattimenti contro Cosa Nostra in quel periodo. In altre parole, proprio le capacità dimostrate da Saetta nei processi di mafia lo resero “indispensabile” in quel ruolo, sigillando il suo destino.
Da Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, Saetta continuò la sua opera con la consueta integrità. Si trovò a presiedere un altro processo delicatissimo, quello relativo alll’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, ucciso dalla mafia a Monreale nel 1980. Anche in questo caso tra gli imputati vi erano boss emergenti di primo piano – Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia – legati ai Corleonesi. Il processo fu lungo e travagliato, funestato da tentativi mafiosi di inquinare la giuria popolare: emerse poi che alcune famiglie mafiose avevano cercato di avvicinare i giudici popolari per condizionarne il verdetto. Ma Saetta non si fece intimidire: in camera di consiglio si impose, dichiarando che mai avrebbe assolto degli imputati in presenza di prove schiaccianti. Grazie alla sua determinazione, il 23 giugno 1988 la Corte d’Assise d’Appello da lui presieduta condannò all’ergastolo i responsabili dell’omicidio Basile, confermando le pene massime già inflitte in primo grado e rendendo vane le pressioni criminali. Solo pochi giorni dopo, il 16 settembre 1988, Saetta depositò le motivazioni scritte di quella sentenza, mettendo nero su bianco la verità giudiziaria sul ruolo dei boss in quel delitto. Quelle pagine, firmate da un giudice inflessibile, furono tra le ultime atti ufficiali della sua vita.
Importante è sottolineare il ruolo che Antonino Saetta avrebbe dovuto avere di lì a breve: gli ambienti giudiziari davano per certa la sua nomina a presidente del collegio d’appello nel Maxiprocesso a Cosa Nostra. In effetti, il maxi-processo di primo grado, concluso nel dicembre 1987, sarebbe approdato in appello proprio dinanzi alla I Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, quella guidata da Saetta. Nei primi giorni di settembre 1988, come emerso successivamente, Saetta era già stato ufficiosamente incaricato di trattare quel maxi-dibattimento di secondo grado. Per Cosa Nostra ciò rappresentava uno scenario da scongiurare a ogni costo: un giudice così integerrimo e “inavvicinabile” alla guida del processo d’appello metteva seriamente a rischio le speranze dei boss di ribaltare le condanne. La mafia temeva infatti che Saetta confermasse in appello i principi rivoluzionari sanciti dalla sentenza di primo grado, come il riconoscimento della struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra e la responsabilità della “Commissione” mafiosa per i delitti eccellenti, principi poi effettivamente consolidati in Cassazione nel 1992. Antonino Saetta era percepito come un ostacolo formidabile per Cosa Nostra: un giudice onesto, esperto di processi di mafia e immune a qualsiasi compromesso. Purtroppo, questa fama di incorruttibilità lo rese anche un bersaglio designato.
Il contesto: la Sicilia degli anni ’80
Gli anni Ottanta in Sicilia furono segnati da una drammatica escalation di violenza mafiosa e dalla reazione dello Stato. Dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ’80 che vide prevalere i Corleonesi di Salvatore Riina, Cosa Nostra avviò una stagione di sangue colpendo magistrati, forze dell’ordine e politici impegnati nella lotta alla criminalità organizzata. Figure come il giudice Rocco Chinnici (ucciso nel 1983), il procuratore Gaetano Costa (1980) e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982) caddero sotto i colpi mafiosi, creando un clima di terrore. In risposta, lo Stato adottò nuovi strumenti legislativi, come la legge Rognoni-La Torre del 1982 che introdusse il reato di associazione mafiosa, e istituì pool antimafia nelle procure. Questo impegno culminò nel Maxiprocesso di Palermo, istruito dal pool guidato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che in primo grado portò a condanne esemplari per centinaia di boss e gregari di Cosa Nostra. Parte dell’opinione pubblica rimase però scettica e ostile: non mancavano giornalisti e politici che accusavano Falcone e gli altri magistrati antimafia di protagonismo, mentre alcuni commentatori profetizzavano che il Maxiprocesso sarebbe finito in nulla. In questo contesto diviso tra una società civile che sosteneva la legalità e una parte invece diffidente, la mafia sentiva il fiato sul collo e reagiva con ferocia.
Proprio in quell’epoca di scontro frontale tra Stato e mafia matura l’assassinio del giudice Antonino Saetta, figura integerrima e prima vittima mafiosa tra i magistrati giudicanti, ossia i giudici del dibattimento. Saetta operava in un contesto in cui Cosa Nostra riteneva di poter agire impunemente, ma la stagione dei maxiprocessi stava dimostrando il contrario. La sua uccisione, avvenuta nel 1988, pochi mesi dopo le sentenze del Maxiprocesso, rappresentò un tragico capitolo di quella guerra: un messaggio intimidatorio rivolto all’intera magistratura giudicante, come lo ha definito il PM Nino Di Matteo. La vicenda di Saetta e di suo figlio Stefano s’inserisce dunque nel clima infuocato della Sicilia anni ’80, tra coraggiose battaglie giudiziarie e rappresaglie mafiose dirette a chi osava contrastare l’organizzazione criminale.
Le indagini e il processo ai responsabili
Le indagini sull’omicidio Saetta si rivelarono inizialmente complesse. Nel 1988 la cupola di Cosa Nostra era ancora potentissima e protetta dall’omertà; inoltre Totò Riina, principale sospettato come mandante, era latitante da anni e imprendibile. Per diverso tempo non emersero testimonianze decisive e il caso conobbe una fase di stallo. Solo alcuni anni dopo, con i primi pentimenti eccellenti e l’arresto di Riina, avvenuto nel 1993, l’inchiesta riprese vigore. Collaboratori di giustizia appartenenti a clan agrigentini e palermitani iniziarono a raccontare ciò che sapevano. Emersero riscontri sul coinvolgimento diretto dei vertici corleonesi nell’ordine di eliminare Saetta. La Procura di Caltanissetta, competente per i delitti contro i magistrati siciliani, riaprì formalmente le indagini nel 1993, affidandole a un pool di magistrati tra cui il giovane PM Antonino Di Matteo. In breve tempo si delineò un quadro chiaro: la strage di Antonino e Stefano Saetta era stata decisa dai boss Salvatore “Totò” Riina e Francesco Madonia (capomafia di Resuttana alleato dei Corleonesi) e messa in atto da un gruppo di killer agrigentini legati a Giuseppe Di Caro, boss di Canicattì.
Nel 1996 la Corte d’Assise di Caltanissetta poté finalmente istruire il processo a carico dei mandanti ed esecutori. Il dibattimento portò alla luce i retroscena: fu provato che Riina in persona aveva ordinato l’omicidio, ottenendo la collaborazione delle cosche agrigentine per l’agguato. Come esecutori materiali vennero individuati tre mafiosi della provincia di Agrigento: Pietro Ribisi, Michele Montagna e Nicola Brancato. Ribisi era un sicario della famiglia di Palma di Montechiaro; Montagna e Brancato elementi affiliati ai clan locali. A gestire la logistica fu il citato boss Giuseppe Di Caro, che funse da “basista”, colui che fornì appoggio e informazioni sul territorio. Purtroppo, al momento del processo Montagna, Brancato e Di Caro erano già deceduti (uccisi in faide interne o per altre cause), e pertanto non poterono essere giudicati. Ribisi invece sedeva sul banco degli imputati, insieme – in contumacia – ai due mandanti principali Riina e Madonia, che nel frattempo erano stati arrestati dallo Stato per altri reati.
Il verdetto giunse puntuale: nel 1998 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò all’ergastolo Salvatore Riina e Francesco Madonia in qualità di mandanti dell’omicidio, e all’ergastolo anche Pietro Ribisi come esecutore materiale. Venne riconosciuto che la strage Saetta fu ordinata ai vertici di Cosa Nostra ed eseguita su loro mandato. Le sentenze di condanna furono poi confermate nei successivi gradi di giudizio – in appello e infine in Cassazione – divenendo definitive. Si faceva così giustizia, a distanza di dieci anni dal fatto, di uno dei più efferati delitti mafiosi di fine anni ’80.
I moventi: vendetta, intimidazione e strategia preventiva
Gli inquirenti accertarono chiaramente il triplice movente dietro l’assassinio di Antonino Saetta. La mafia ottenne infatti con un solo delitto tre obiettivi criminali distinti. Il primo fu la vendetta ossia punire Saetta per la sua inflessibilità. Aveva osato condannare all’ergastolo boss di primo piano vanificando i tentativi mafiosi di ingerenza nei processi La sua dirittura morale e la capacità di resistere alle pressioni lo avevano reso un nemico agli occhi di Cosa Nostra, che intendeva fargliela pagare. Il secondo fu l’intimidazione esemplare: l’omicidio clamoroso di un Presidente di Corte d’Assise mirava ad ammansire gli altri magistrati giudicanti impegnati in procedimenti contro la mafia. Uccidere un giudice nel pieno delle sue funzioni, per giunta fuori dall’area palermitana, a sottolineare che potevano colpirti dovunque, fu un messaggio terroristico verso tutta la categoria: chi avesse giudicato i mafiosi da quel momento avrebbe dovuto aver paura. Ultimo, ma non meno importante movente fu quello della prevenzione strategica: eliminare Saetta significava soprattutto prevenire la sua possibile nomina a presidente del Maxiprocesso d’Appello. Cosa Nostra voleva evitare che proprio quel magistrato “ostico”, incorruttibile e già distintosi nei processi precedenti, andasse a dirigere il cruciale appello del maxi-trial ai boss. Liberandosi di lui, i Corleonesi speravano forse di trovare alla guida di quel procedimento un giudice più accomodante o comunque lanciare un segnale per condizionarne l’andamento.
Tali motivazioni, emerse sia dalle dichiarazioni di pentiti sia dagli elementi processuali, coincidono con l’analisi che già Falcone aveva intuito immediatamente dopo il delitto. Si trattò insomma di un delitto premeditato con finalità multiple, che univa la vendetta al calcolo mafioso. Come ha sintetizzato anni dopo la Procura di Palermo, “l’omicidio ha avuto senza dubbio un intento preventivo, oltre che chiaramente punitivo: volevano anche ammansire tutti gli altri magistrati giudicanti impegnati in processi analoghi”. Purtroppo per i boss, la strategia non impedì allo Stato di proseguire la sua azione: il Maxiprocesso d’appello si tenne comunque (sia pure inizialmente con esiti altalenanti) e alla fine la Cassazione nel 1992 confermò definitivamente le condanne ai vertici di Cosa Nostra. Ma il prezzo pagato fu altissimo: la vita di un servitore dello Stato integerrimo e quella di un giovane innocente.
Stefano Saetta, la giovane vita spezzata
Stefano Saetta, figlio secondogenito del giudice Antonino, aveva 35 anni al momento della tragedia. La sua non fu una scelta di campo o un ruolo pubblico: Stefano era un civile, totalmente estraneo alle vicende giudiziarie che impegnavano il padre, e fu ucciso unicamente perché si trovava accanto a lui quella notte. La sua morte rappresenta perciò una testimonianza ancor più crudele della ferocia mafiosa, che non esitò a eliminare anche un familiare innocente pur di raggiungere il proprio scopo. Ma chi era Stefano Saetta come persona?
Dalle testimonianze dei familiari e dalle ricostruzioni emerse negli anni, affiora il ritratto di un giovane sensibile e riservato, molto legato alla famiglia. Aveva una forte passione per il cinema e la musica, interessi che coltivava nel tempo libero, quella sera in auto stavano ascoltando canzoni alla radio, come notato dai soccorritori. La vita di Stefano non era stata priva di difficoltà: in adolescenza aveva sofferto di alcuni disturbi psicologici, tanto che fu costretto ad interrompere gli studi e a chiedere il riconoscimento di un’invalidità civile. Tuttavia negli ultimi anni si era ripreso in modo significativo: era tornato in buona salute, conduceva un’esistenza normale ed era anche dedito allo sport, amava particolarmente il nuoto. Alcuni cronisti, trovando tra i suoi documenti il tesserino di invalido, inizialmente ipotizzarono erroneamente che fosse disabile grave o in stato vegetativo, ma la famiglia ha successivamente chiarito che ciò non corrispondeva al vero. Stefano viveva ancora con il padre Antonino a Palermo, in un rapporto quasi simbiotico di affetto reciproco. Dopo la prematura scomparsa della madre, padre e figlio si erano ulteriormente avvicinati, sostenendosi a vicenda.
Quella domenica 25 settembre 1988 Stefano aveva deciso di accompagnare il padre nel viaggio di ritorno a Palermo dopo la festa di battesimo a Canicattì, probabilmente per fargli compagnia e aiutarlo a restare sveglio durante il tragitto serale. In un attimo, lungo l’asfalto buio della statale, la sua vita è stata falciata dai proiettili insieme a quella del padre. Vittima innocente e inconsapevole, Stefano Saetta morì senza neanche capire cosa stesse accadendo. Il particolare straziante del corpo di Antonino trovato abbracciato a quello del figlio testimonia l’amore paterno fino all’ultimo istante: con ogni probabilità, vedendo i killer spuntare dal nulla, il giudice cercò istintivamente di fare scudo col proprio corpo al ragazzo. Un estremo, inutile atto d’amore che però definisce in modo potente il legame tra i due. Oggi Stefano Saetta rappresenta il simbolo di tutte le vittime innocenti di mafia: un giovane estraneo alle logiche criminali, strappato alla vita solo perché figlio di un uomo “scomodo”. La sua memoria è inscindibilmente legata a quella del padre, e in molte commemorazioni viene ricordato accanto ad Antonino, affinché il suo sacrificio non passi in secondo piano. Come ha scritto un collega di Saetta, è fondamentale non cadere nell’errore di classificare vittime di “serie A” e “serie B”: “Ed è quello che è toccato a Saetta, che rifiutava ogni genere di visibilità. Il suo nobile sacrificio, insieme a quello del figlio, ci ha lasciato un enorme testamento morale”. Stefano era parte di quel sacrificio e di quel testamento morale: la loro famiglia ha pagato un prezzo incalcolabile per la giustizia.
Il ricordo e i riconoscimenti
Per molti anni l’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio è rimasto meno noto al grande pubblico rispetto ad altri eccidi di mafia. La riservatezza di Antonino Saetta in vita, un uomo schivo e lontano dai riflettori, e la coincidenza con eventi successivi ancor più clamorosi, come le stragi del 1992, fecero sì che la loro vicenda venisse talvolta definita “dimenticata”. «Saetta appartiene alla schiera degli eroi civili poco noti e quasi dimenticati», ha scritto nel 2024 il magistrato Ottavio Sferlazza in un ricordo dedicato ai più giovani colleghi. Tuttavia, negli ultimi decenni, la figura di Antonino, e con lui quella di Stefano, è stata progressivamente rivalutata e onorata come meritano. Ogni anno, il 21 marzo, il loro nome viene solennemente scandito durante la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, organizzata dall’associazione Libera. Proprio l’associazione Libera ha dedicato ad Antonino e Stefano Saetta uno dei suoi presìdi territoriali: la sezione di Acqui Terme, prima sede di servizio del giudice, porta il loro nome. Segno che il messaggio del loro sacrificio ha varcato i confini della Sicilia per diventare patrimonio della coscienza civile nazionale.
Numerose sono le intitolazioni e gli omaggi alla memoria di Saetta e figlio. A Palermo, nel 2014, una scuola pubblica (il plesso della media di via Principe di Palagonia, I.C. “Giotto-Cipolla”) è stata intitolata ad Antonino e Stefano Saetta, a oltre 25 anni dal loro assassinio. Alla cerimonia parteciparono alte cariche giudiziarie siciliane, che sottolinearono l’importanza di trasmettere ai giovani l’esempio di questo giudice coraggioso e “silenzioso”. In Piemonte, a Bosco Marengo (Alessandria), esiste Cascina Saetta, un bene confiscato alla mafia e trasformato in centro di educazione alla legalità: questa struttura, affidata a un’associazione di Libera, è stata intitolata proprio al giudice Antonino Saetta e a suo figlio Stefano. Ogni anno ospita campi antimafia e iniziative per studenti, tenendo vivo il ricordo dei Saetta lontano dalla loro terra d’origine. Presso il Palazzo di Giustizia di Caltanissetta, l’Aula Magna è stata dedicata alla memoria di Antonino Saetta insieme a quella del giudice Rosario Livatino, in segno di omaggio per il loro sacrificio. Inoltre, una frase pronunciata dallo stesso Saetta – “La nostra dignità ci impone, alle volte, di affrontare con coraggio situazioni difficili” è stata riportata su una targa a monito di tutti i magistrati, come ricordato dall’attuale Ministro della Giustizia. Nella sua Canicattì, una villa comunale è stata intitolata a Stefano Saetta, così come varie vie e targhe commemorative ricordano il giudice martire e suo figlio in diversi comuni siciliani.
Le istituzioni della Repubblica non hanno dimenticato Antonino Saetta. In occasione degli anniversari più significativi, le più alte cariche dello Stato ne hanno celebrato la memoria con partecipazione. Nel 2023, 35º anniversario dell’eccidio, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, egli stesso fratello di una vittima di mafia, ha voluto rilasciare una dichiarazione ufficiale: “La sera del 25 settembre 1988 Antonino Saetta, Presidente di Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco con suo figlio Stefano. Un assassinio di matrice mafiosa per la lotta da lui condotta contro le cosche”. Mattarella ha ricordato come Saetta, nel corso della sua lunga carriera, si fosse occupato anche di processi delicati (come quelli alle Brigate Rosse e il caso del citato naufragio Seagull), a riprova della sua versatilità e dedizione. “Fare memoria del suo coraggioso esempio – sottolinea il Capo dello Stato – costituisce stimolo alla diffusione della cultura della legalità e rinnova, attraverso la testimonianza delle sue qualità umane e professionali, l’impegno nel contrasto di ogni forma di criminalità”. Il Presidente della Repubblica ha quindi espresso la gratitudine del Paese ai familiari di Saetta e a tutti coloro che ne hanno mantenuto vivo il ricordo, lodandone “l’encomiabile dedizione al servizio della Repubblica”.
Anche altri rappresentanti istituzionali hanno voluto evidenziare il valore di Saetta. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella stessa ricorrenza, ha definito il giudice agrigentino “il primo magistrato giudicante assassinato dalla mafia”, sottolineando come “in quegli anni di lutti e affari sporchi, la rettitudine di giudici come Saetta ([)…) fu essenziale nel contribuire a fermare l’espansione del potere criminale dei clan», un ruolo troppo poco valorizzato nella nostra storia. Il Presidente della Camera Lorenzo Fontana ha reso omaggio a Saetta come “esempio di dedizione e coraggio nel lavoro incessante di contrasto a ogni forma di criminalità”, a nome di tutta l’Assemblea parlamentare. Parole commosse sono giunte anche da chi, nelle istituzioni locali, ne custodisce la memoria: ad esempio Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, ha ricordato come Antonino Saetta “sapeva il rischio che correva opponendosi a Cosa Nostra” e ha rievocato la figura del figlio Stefano definendolo “vittima inconsapevole”, sottolineando il gesto del padre che provò a fargli scudo col proprio corpo.
Infine, la cultura ha contribuito a illuminare nuovamente la storia di Saetta. Nel 2020 è uscito già citato il film documentario “L’abbraccio – Storia di Antonino e Stefano Saetta”, scritto e diretto dal regista Davide Lorenzano. Si tratta della prima opera audiovisiva interamente dedicata alla vicenda: attraverso filmati d’archivio, interviste ai familiari, tra cui la figlia Gabriella Saetta, e contributi di diversi magistrati, il documentario ripercorre la vita professionale del giudice, il profilo inedito del figlio e quello struggente rapporto padre-figlio spezzato dalla violenza mafiosa. Il titolo richiama proprio quell’ultimo abbraccio nella morte. L’opera ha vinto premi in festival cinematografici e ha avuto il merito di riportare all’attenzione generale una storia che per troppo tempo era rimasta in ombra. Come ha scritto un commentatore, si è trattato di un “ricordo necessario, dopo anni di colpevole dimenticanza, nei confronti di un uomo perbene, forse il più ignorato o dimenticato tra i magistrati vittime della mafia”.
Oggi Antonino Saetta e suo figlio Stefano sono ricordati con immutata stima e commozione da colleghi, cittadini e studenti. La loro storia viene raccontata nelle scuole come esempio di coraggio e senso dello Stato. “La loro morte non va dimenticata, anzi deve aiutarci a comprendere”, ha affermato un magistrato palermitano, “è necessario che la loro memoria venga sempre coltivata. Finalmente il faro di Antonino Saetta comincia a rischiararsi”. Nel solco del loro sacrificio, le nuove generazioni possono trovare ispirazione per proseguire la battaglia per la legalità. Il giudice Saetta, uomo schivo ma fermissimo nel servire la giustizia , e il giovane Stefano, figlio amorevole caduto innocente, continuano a vivere nel ricordo collettivo come martiri della democrazia. La loro eredità morale resta un monito: di fronte al male, occorre mantenere la dignità e il coraggio, proprio come Antonino Saetta scrisse: “La nostra dignità ci impone, alle volte, di affrontare con coraggio situazioni difficili”. E quel coraggio, che padre e figlio hanno pagato con la vita, illumina ancora oggi la strada della lotta alla mafia.
Roberto Greco








































