A Don Sergio Ciresi nuovo parroco a Brancaccio, a Palermo, nella chiesa di San Gaetano, la parrocchia che fu di don Pino Puglisi, abbiamo posto alcune domande.
Caro Don Sergio hai sentito la tua chiamata a trent’anni, ci racconti cosa ti ha mosso a cambiare vita e seguire totalmente il Signore?
A trent’anni una scintilla divina ha incendiato il mio cuore, cambiando per sempre la mia strada. Ero Sergio, un ragazzo di Palermo, nato nel 1970, immerso nella vibrante scena degli anni ’80 e ’90. La mia vita era un turbine di feste, amici, look alla moda e il desiderio costante di brillare, di essere “qualcuno” agli occhi del mondo. Palermo, con le sue luci e il suo caos, era il mio palco, e io correvo dietro all’apparenza, cercando di colmare un vuoto che non riuscivo a spiegare. La fede? Era una eco lontana, un’eredità della mia famiglia cattolica, ma non ancora la mia fiamma, non qualcosa che sentivo davvero mia.
Poi, come un sussurro dolce e insistente, Dio ha bussato alla mia anima. Non è stato un tuono o un fulmine, ma una voce calda, quasi impercettibile, che mi ha fatto fermare: “Sergio, è questa la tua strada? Non c’è qualcosa di più grande che ti chiama?”. Quelle domande hanno iniziato a scavare dentro di me, come un raggio di sole che squarcia le nubi. Non potevo più ignorarle. Ho iniziato a pregare, a cercare, a guardarmi dentro con occhi nuovi. Ogni momento di silenzio, ogni riflessione, mi portava più vicino a una verità che non potevo negare: la felicità non era nelle cose, nelle serate o nell’approvazione degli altri, ma in un “sì” totale a Dio, un salto verso un destino più alto.
Quel “sì” non è stato facile. Dire addio alle sicurezze, alle maschere, al superfluo, significava abbandonare tutto ciò che avevo conosciuto. È stato un salto nel buio, ma pieno di speranza, come chi sa che una mano lo guiderà. A 38 anni, con il cuore che batteva forte, ho detto “Eccomi” e sono entrato in seminario. È stato un cammino di sacrificio, ma anche di gioia profonda, come scoprire una casa che non sapevo di avere.
Oggi, tra i più fragili, i poveri, i feriti dalle ingiustizie, ho trovato il mio posto. Ogni volto che incontro, ogni abbraccio, ogni mano che stringo, ogni sorriso che dono e che ricevo, è un segno di Dio che mi dice: “Vale la pena”. Essere prete, per me, è essere “pane spezzato” per gli altri, portare speranza dove c’è dolore, amore dove c’è abbandono, cercando di essere le mani di Cristo per chi si sente dimenticato. Ogni giorno è una sfida, ma anche una grazia: servire mi ricorda che siamo nati per donarci, per costruire un mondo più giusto, più vivo, più pieno di luce. Quella chiamata a trent’anni è stata la mia rinascita, il momento in cui ho capito che la vera grandezza non è brillare agli occhi del mondo, ma accendere una luce per gli altri.
Sei nella Caritas di Palermo, ci dici cosa è per te la Carità?
Per me, don Sergio Ciresi, prete palermitano, la carità non è un semplice gesto di compassione o un aiuto sporadico. È il cuore pulsante del Vangelo, una “pedagogia” che insegna a vedere Cristo nei volti degli ultimi, a farsi “pane spezzato” per chi soffre. È un cammino di solidarietà che trasforma chi dà e chi riceve, costruendo comunità più giuste e umane. L’ho imparato nei miei anni alla Caritas diocesana di Palermo, dove ho servito come vice e poi direttore, specialmente durante la pandemia del 2020. In quel tempo di caos e paura, coordinavo centinaia di volontari per distribuire pacchi alimentari, accogliere migranti, offrire riparo ai senzatetto. Ogni gesto era un seme di speranza, un modo per dire: “Non siete soli”.
La carità si vive nell’ascolto, nell’osservazione attenta, nella mano tesa senza esclusioni. Qui, tra le strade segnate da povertà e ingiustizie, ho capito che la carità non è solo dare cibo o vestiti, ma riconoscere la dignità di ogni persona, abbracciare l’essenziale, disarmando i cuori dal giudizio e dal superfluo. È un invito a vivere l’amore concreto del Vangelo, a essere luce nel buio del mondo.
Un episodio mi ha segnato profondamente. Durante la pandemia, mentre distribuivamo pacchi alimentari in un quartiere povero di Palermo, incontrai Maria, un’anziana con un carrellino malandato. I suoi occhi bassi portavano il peso di una vita difficile, ma il suo silenzio era pieno di dignità. Le diedi un pacco con cibo e qualche prodotto per la casa, e lei, con un sussurro, mi disse: “Padre, non è per me. È per i miei vicini, una famiglia con tre bambini. Io ho poco, ma loro non hanno niente”. Quel gesto mi ha spezzato e ricostruito il cuore. Maria, con la sua pensione minima, aveva scelto di donare ciò che le avevamo dato, incarnando la carità più pura. In quel momento, tra le mascherine e la paura del virus, ho visto il volto di Cristo: non solo in lei, ma nella forza di chi, pur avendo poco, dà tutto. È stata una lezione viva: la carità è farsi prossimi, come Maria, come il Buon Samaritano.
La carità è speranza in azione, un cammino che educa alla giustizia sociale, superando l’individualismo. Ogni giorno incontro i feriti dalla vita: i poveri, i dimenticati, chi lotta contro le ingiustizie. Ogni loro storia, ogni mano stretta, mi ricorda perché sono prete: per essere le mani di Cristo, per portare amore dove c’è dolore. La carità non è solo un atto, ma un modo di essere, un “sì” quotidiano a Dio che ci chiama a costruire un mondo più umano.
Ora sei stato assegnato a Brancaccio come intendi operare?
Nel cuore di Brancaccio, cercherò di tessere speranza, una carità che riflette la luce del Vangelo. È una “pedagogia dell’amore”, un invito che mi rivolgo a scorgere il volto di Cristo negli ultimi, a farsi pane spezzato, come il Signore sulla croce, per chi langue nel deserto della povertà. Come parroco di San Gaetano la carità è un ponte tra cuori, un cammino che trasforma, intrecciando reti, chiamando la comunità ad essere lampada ardente, mai nascosta sotto il moggio (Mt 5,15).
Spero come don Pino Puglisi, seme caduto in terra nel 1993, che muore per portare frutto abbondante (Gv 12,24). Cercherò di seguire il modello di don Puglisi, promuovendo una pastorale radicata nella carità, nella mitezza e nella fede, continuando a costruire una comunità che viva l’amore concreto verso i più fragili. La priorità è l’ascolto delle famiglie e dei giovani del quartiere, segnato da povertà educativa e sociale, cercando di instaurare un dialogo diretto per comprendere i bisogni reali della comunità. Desidero sviluppare progetti concreti contro le piaghe sociali, attraverso la collaborazione con realtà locali, le scuole del territorio e il lavoro di squadra, creando reti di solidarietà.
Mi affido al Signore ed alla Vergine Maria per affrontare le sfide, con un approccio umile ma determinato, valorizzando la forza della comunità. Ritengo che questo approccio rifletta un impegno a proseguire la missione di don Puglisi, adattandola alle esigenze attuali del quartiere, con un focus su inclusione, educazione e contrasto alle marginalità.
Riccardo Rossi








































