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Mer, 12 Nov 2025
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Claudio Volpicelli, l’agronomo vittoriese che sedeva sulla sedia sbagliata

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Claudio Volpicelli, agronomo di Vittoria (RG), era un giovane uomo ritenuto da tutti “onesto e sconosciuto alle forze dell’ordine”. La sua breve vita, poco più che trentenne, era dedicata al lavoro. In qualità di agronomo curava i campi di coltivatori locali nel feudo agricolo di Vittoria, un centro di rilevanza economica nel Ragusano. Colleghe e conoscenti ricordano la sua dedizione al lavoro e il comportamento corretto. Uno storico ha sottolineato che Volpicelli “non era la persona che i killer intendevano realmente uccidere” proprio perché “ritenuto da tutti onesto”.

Vittoria alla fine degli anni ’80: mafia e contesto locale

L’analisi della presenza mafiosa a Vittoria, nel cuore della provincia di Ragusa, rivela un contesto di profonda e storica infiltrazione che smentisce la percezione tradizionale di tranquillità associata al territorio ibleo. Vittoria, con una popolazione di circa 63.000 abitanti e il secondo comune più popoloso della provincia, è emersa come un epicentro di interessi criminali vitali, principalmente a causa della sua centralità nel settore agroalimentare. Vittoria riveste un ruolo strategico in Sicilia e a livello nazionale grazie alla presenza del Mercato Ortofrutticolo, riconosciuto come il più importante del Sud Italia e il secondo a livello nazionale. Questa infrastruttura costituisce un nodo cruciale nel “triangolo dell’ortofrutta” che alimenta i mercati di Milano e Fondi, immettendo prodotti agricoli, tra cui il rinomato pomodoro ciliegino, nella filiera commerciale italiana. Tale ricchezza ha storicamente reso il territorio baricentrico per molteplici interessi, configurandolo come un obiettivo primario per i sodalizi mafiosi in cerca di riciclaggio e controllo economico. Per decenni, la provincia di Ragusa è stata definita la “provincia babba”, ossia tranquilla o sciocca , suggerendo una sostanziale immunità dal fenomeno mafioso, a differenza delle province storicamente dominate da Cosa Nostra come Palermo o Catania. Tuttavia, una lettura storica più attenta dimostra che questa percezione ha agito come un vero e proprio cono d’ombra , consentendo ai gruppi criminali locali di crescere indisturbati, in assenza di una pressione investigativa e mediatica comparabile a quella esercitata in altre aree siciliane. Già a metà degli anni ’80, le dinamiche locali indicavano una presenza mafiosa consolidata e talvolta tollerata. È emblematico il soprannome ironico di “Hotel Bristol” affibbiato al carcere di Ragusa, dove i boss mafiosi e i contrabbandieri reclusi godevano di agi particolari. Questa situazione era favorita dalla debolezza strutturale delle forze dell’ordine in quegli anni, con l’ordine pubblico provinciale affidato a circa un centinaio di uomini tra Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, un numero addirittura inferiore alle unità operative presenti in un singolo piccolo centro della Sicilia occidentale. La ridotta densità di presidi investigativi, combinata con il basso profilo pubblico mantenuto dai clan prima delle grandi faide, ha permesso alle organizzazioni criminali di Vittoria di consolidare la loro base di potere e la loro potenza economica, specialmente nel settore agricolo, prima che l’attenzione investigativa centrale, spesso coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Catania, intervenisse in modo sistematico. La Stidda è un’organizzazione criminale nata come movimento dissidente e contrapposto a Cosa Nostra, storicamente radicata tra le province di Caltanissetta e Agrigento. A Vittoria, la Stidda ha trovato un terreno fertile per affermarsi come sodalizio di maggiore caratura, in particolare attraverso il clan Dominante-Carbonaro. Questo sodalizio, che per una certa fase ha esercitato un predominio sul territorio ipparino, con i noti fratelli Carbonaro al vertice , rappresenta un caso atipico nel panorama siciliano, dove Cosa Nostra detiene spesso il primato in termini di radicamento storico. Il centro nevralgico del clan era rappresentato dall’imprenditore Giovanni Donzelli, capo-famiglia condannato per mafia negli anni Novanta. Donzelli, residente a Scoglitti, una frazione marittima di Vittoria, gestiva un esteso business nel settore dello smaltimento dei teloni di plastica usati nelle serre, un’attività estremamente redditizia proprio grazie ai legami con la malavita locale. Questo contesto di mafia strisciante alimentava un clima di intimidazioni: in quegli anni, imprenditori indipendenti denunciavano richieste estorsive e omicidi come rappresaglie per il rifiuto del “pizzo”. Vittoria era al centro di un’economia agricola molto grande, nella quale la criminalità organizzata cercava di controllare i profitti, soprattutto attraverso racket e smaltimento illegale di rifiuti speciali, i teloni plastici. Il successo della Stidda vittoriese è strettamente legato alla capacità di controllare l’economia agricola locale, fornendo una base di reclutamento robusta e una capacità di radicamento economico efficace. Nonostante la prevalenza della Stidda, Cosa Nostra mantiene una presenza significativa, sebbene risenta dell’influenza delle consorterie catanesi vicine. In un rapporto di rivalità latente o concordata, in antitesi ai Dominante-Carbonaro, opererebbero a Vittoria i fratelli Piscopo, storicamente legati alla famiglia nissena di Cosa Nostra degli Emmanuello. Esistono inoltre forti legami con altre organizzazioni come ad esempio con la famiglia gelese dei Rinzivillo, che fa riferimento a Cosa Nostra, che ha cointeressenze nella zona, con esponenti vicini ad essa attivi in settori strategici come quello degli imballaggi.

Dinamica dell’agguato del 6 ottobre 1989

La sera del 6 ottobre 1989, verso le 19:20, alcuni killer armati fecero irruzione nel deposito di plastica della ditta Donzelli, ubicato nella periferia industriale di Vittoria. In quell’azienda il titolare Giovanni Donzelli riceveva e stoccava i teli di plastica delle serre provenienti dai campi circostanti. Nelle fasi concitate dell’attacco, Volpicelli, dipendente stagionale della ditta, era seduto alla postazione abituale del titolare, ignaro del fatto che quel giorno Donzelli fosse assente. I sicari spararono più volte, colpendolo gravemente. “Quei colpi di pistola sparati dai killer non erano per Claudio”, si leggerà nelle cronache. Il giovane morì sul colpo: l’arma utilizzata era probabilmente una pistola e i numerosi i colpi esplosi alla testa ne causarono la morte immediata.

Subito dopo l’agguato emerse il tragico errore. Volpicelli era stato ucciso per scambio di persona. I carabinieri di Vittoria accertarono nei giorni successivi che i criminali avevano scambiato l’agronomo con Giovanni Donzelli, il loro vero bersaglio. Il movente appariva dunque riconducibile a ragioni di mafia: Donzelli stesso in un primo momento confermò agli inquirenti di essere stato minacciato da imprenditori rivali. L’intera vicenda fu riassunta nel capitolo “una maledetta sedia”: Volpicelli era seduto al posto sbagliato, e la “sedia” destinata al boss si era rivelata fatale.

Indagini e processo

Le indagini avviarono inizialmente una corsa contro il tempo, ma i risultati furono scarsi: i carabinieri isolavano l’episodio come un grave fatto di sangue locale, senza immediata rivendicazione. Nel frattempo, la notizia del ferimento di un altro imprenditore locale, lo spezzino Cannizzo, colpito il 31 ottobre, gettò sospetto sulla guerra fra gruppi economici di Vittoria, ma in quel contesto il nesso con l’omicidio di Volpicelli non fu subito chiarito. Solo con i successivi pentimenti di boss locali emerse la verità sull’errore di persona.

Nel novembre 1994 l’autorità giudiziaria di Catania condusse l’operazione “Squalo”, un grande blitz coordinato dalla DDA catanese contro la cosca Carbonaro. Furono arrestati 111 esponenti ritenuti a vario titolo coinvolti in attività mafiose nell’area ragusana, tra i nomi compaiono i fratelli Matteo e Carmelo Di Martino, il commerciante Giovanni Cilia e altri collaboratori del Clan. In tale contesto, emersero gli elementi relativi all’omicidio di Volpicelli: le indagini ricostruirono il coinvolgimento diretto di affiliati della Stidda e di un possibile mandante nel mondo delle imprese plastica.

Il processo scaturito dall’operazione “Squalo” giunse a sentenza nel 1998. I magistrati riconobbero la matrice mafiosa dell’agguato: alcuni imputati, tra cui un esponente di rilievo del clan, furono condannati all’ergastolo per l’omicidio di Volpicelli. In aula vennero citate le confessioni dei pentiti della Stidda, tra cui i fratelli Carbonaro, i quali confermarono che i sicari avevano mirato originariamente a Donzelli, scambiando volontariamente o meno Volpicelli per quell’obiettivo. L’errore di persona fu quindi ratificato come spiegazione ufficiale del delitto. Le condanne restarono definitive in sede di appello.

Dichiarazioni e prese di posizione

L’episodio suscitò scalpore nell’opinione pubblica ma, come evidenziato dalle cronache, non generò fin da subito prese di posizione ufficiali ben visibili. Nei documenti d’archivio si annota che “non è stata presa alcuna posizione da parte dei poteri municipali” di Vittoria in seguito alla morte di Volpicelli. Ciò significa che né il sindaco né il consiglio comunale furono immediatamente visti denunciare pubblicamente l’atto criminale, esponendosi apertamente contro la mafia locale. Anche la magistratura e le forze dell’ordine mantennero inizialmente il riserbo investigativo.

Un segnale alle istituzioni arrivò solo mesi dopo: nel dicembre 1989, su proposta del vicesindaco Francesco Aiello, forte sostenitore della lotta alla mafia, il consiglio comunale di Vittoria deliberò un servizio di scorta per gli “elementi più esposti” alle pressioni mafiose. Fu una mossa straordinaria, secondo i resoconti, che rimase “sorprendente” per la prassi amministrativa locale. Inquirenti e investigatori, dal canto loro, interrogavano i pentiti: i collaboratori di giustizia fornivano versioni concordi sull’omicidio, confermando l’errore nella dinamica e il legame col clan. Queste testimonianze furono utilizzate nel dibattimento giudiziario.

Impatto emotivo e memoria civica

L’assassinio di Claudio Volpicelli colpì profondamente la comunità vittoriese. I suoi familiari vissero la tragedia come un’ingiustizia incomprensibile, perché la vittima era estranea a qualsiasi conflitto criminale. Oggi la sua figura è ricordata fra le “vittime innocenti delle mafie”: la sua storia è narrata nei siti e nelle pubblicazioni di associazioni come Libera e VittimeMafia, che raccolgono le biografie dei caduti “senza colpa”. Tali iniziative civiche ne mantengono viva la memoria in ambito nazionale. Ad esempio, il giornalista Paolo Borrometi ha dedicato a Volpicelli un articolo che ironicamente titola “Una maledetta sedia”: il ricordo del giovane ucciso seduto per caso al posto di qualcun altro.

A livello locale non risultano, fino a oggi, toponimi o monumenti dedicati a Volpicelli, diversamente da quanto accaduto in altre città per vittime di mafia. Rimane però vivo il senso di sgomento e condanna civile: ogni anno gruppi antimafia e scuole rivolgono uno sguardo al caso Volpicelli per riflettere sulla violenza mafiosa. La cronaca mette in evidenza che anche dopo più di trent’anni rimane l’assurdità di un delitto compiuto “senza un perché”. In ricordo di quella maledetta sedia, le comunità impegnate nella legalità chiamano a raccolta i cittadini nella Giornata delle vittime innocenti, il 21 marzo, e in altre iniziative antimafia, affinché l’opera di Volpicelli come tecnico agricolo e cittadino onesto non venga dimenticata.

Roberto Greco

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