“Se spariscono i nostri prodotti di punta, muore l’agricoltura e muore la nostra identità.” questo allarme, che riguarda della coltivazione del carciofo, nello specifico nella Piana di Catania, evidenzia diverse delle responsabilità politiche: la crisi idrica, la gestione delle reti irrigue e la mancata riforma dei consorzi di bonifica diventano assi centrali del contendere.
Dietro l’enfasi retorica c’è un’economia concreta, che rischia di collassare: agrumi, meloni e angurie sono già stati messi in ginocchio dalla prolungata siccità. Ora anche il carciofo, prodotto simbolico e fonte di reddito per molti agricoltori nella Piana di Catania, viene evocato come prossimo “caduto” di una crisi strutturale.
Per capire se la denuncia è fondata occorre esaminare tre piani: le cause tecniche della crisi, le responsabilità istituzionali e politiche, e le prospettive (o le proposte) che potrebbero invertire la rotta.
Siccità, cambiamenti climatici e scarsità d’acqua
La Sicilia negli ultimi anni ha subito precipitazioni sempre più irregolari e scarse in molte stagioni: fenomeni che risentono del cambiamento climatico e che accentuano la vulnerabilità idrica dell’isola. La scarsità d’acqua, in agricoltura, può essere tanto “fisica” perché non c’è acqua sufficiente, quanto “economica”, l’acqua c’è ma costa troppo o non è gestita.
Le infrastrutture inadeguate
Nella Piana di Catania, uno degli elementi più inquietanti è che “l’acqua c’è, ma non arriva”: molte condotte irrigue sono colabrodo, perdendo un’enorme quantità di risorsa prima ancora che raggiunga i campi. In alcuni casi l’acqua fuoriesce dalla condotta prima ancora di raggiungere le aziende agricole.
Un dato emblematico: a Ramacca, nel cuore della zona carcioficola, si è passati da mille ettari coltivati a meno di quaranta in trent’anni. Un processo lento, quasi eutenico, in cui la scarsità d’acqua è complice, ma l’inefficienza strutturale è colei che dà il colpo di grazia.
Grandi opere incompiute: il caso della diga di Pietrarossa
Parte della risposta irrigua futura avrebbe dovuto passare attraverso la diga di Pietrarossa, progettata per alimentare il sistema di irrigazione della Piana di Catania, insieme ad altri impianti come la diga Don Sturzo. Ma quel progetto non ha finora risolto i problemi: è rimasto parzialmente incompiuto o non pienamente operativo. Questo lascia la rete idrica senza il supporto di nuovi volumi regolati capaci di controbilanciare periodi di scarsità.
Conflitti tra usi civili e usi agricoli
In condizioni di scarsità, l’acqua potabile e le esigenze urbane – che hanno priorità politica e sociale – tendono a prevalere sull’irrigazione agricola. Il bilanciamento tra diritto all’acqua potabile e diritto all’irrigazione è delicato, e in Sicilia lo è diventato drammatico.
Le responsabilità istituzionali e politiche
La pandemia idrica non è un evento naturale neutro: nelle sue conseguenze gravano le scelte, o l’inerzia della politica e delle istituzioni regionali. L’interrogazione parlamentare non è solo strumentale, ma un invito a guardare chi doveva agire e non ha agito.
I Consorzi di Bonifica: l’annosa riforma mancata
Secondo l’onorevole, uno dei punti più gravi è la mancata riforma dei Consorzi di Bonifica. In Sicilia, questi enti sono responsabili della manutenzione delle infrastrutture irrigue, dei canali e delle condotte. Una riforma volta a razionalizzare competenze, potenziarne la capacità tecnica e superare inefficienze era promessa, ma è saltata in consiglio regionale. I “franchi tiratori” interni alla maggioranza ne hanno impedito l’approvazione, secondo le cronache.
Il risultato è che il sistema rimane frammentato, in molti casi inadeguato e con scarsa capacità di programmare investimenti mirati.
La responsabilità del governo regionale
L’onorevole accusa direttamente il governo regionale, e l’asse centrodestra che lo sostiene, di “fallimento clamoroso”. Se la politica regionale non ha garantito una governance efficiente dell’acqua, se non ha superato la stagionalità dei provvedimenti, se non ha intercettato risorse europee o nazionali utili, il conto politico è duro. Occorre verificare, innanzittuo, se il governo ha stanziato fondi adeguati per riparare e rifare le reti colabrodo; se ha incentivato tecnologie di risparmio idrico come microirrigazione, sistemi a goccia, captazioni alternative; se ha stimolato la cooperazione fra agricoltori, consorzi, enti di bacino; se ha agito con continuità, non solo in emergenza, come d’imperio o come piano strategico di medio-lungo termine.
Al momento, la Regione ha attivato procedure straordinarie per contrastare gli effetti della siccità: consentire alle aziende di utilizzare le risorse idriche disponibili più rapidamente, attivare pompe mobili per attingere da corsi fluviali, intervenire sui “volumi morti” delle risorse idriche. Ma tali misure restano emergenziali, non risolutive della crisi strutturale.
Ad esempio, è stato dato il via libera all’uso straordinario dell’acqua pubblica dai corsi fluviali con pompe mobili, ma si tratta di interventi tampone.
In aggiunta, 35 milioni di euro sono stati stanziati per sostenere le aziende agricole colpite dalla siccità, ma il bando riguarda agrumi, mandorlo, pistacchio e olive, non è chiaro finora se il carciofo o le colture orticole abbiano analoghe misure dedicate.
Ma le risorse non bastano se non sono accompagnate da riforme, progetti di lungo respiro e governance efficace.
Il “duro contesto politico” e la lentezza decisionale
La riforma dei Consorzi è stata definita un “intervento strategico non più rinviabile dal presidente Schifani”, ma il percorso è stato bloccato. I produttori e le associazioni denunciano che le promesse elettorali restano tali, mentre le emergenze si accumulano.
In altri casi, i cantieri per riparazioni urgenti sono avviati solo dopo che perdite d’acqua macroscopiche emergono sulle strade, non più con piani manutentivi ordinari. Il sindaco di Mineo, che è anche agricoltore, denuncia come la falla in contrada Cugno fosse stata visibile da mesi prima dell’intervento. Un calendario politico che procede a scatti e un’azione amministrativa reattiva anziché proattiva sembrano aver aggravato la crisi. Chiamare in causa il carciofo non è casuale: in Sicilia, in particolare nella Piana di Catania, il carciofo ha un valore identitario ed economico. La sua perdita sarebbe simbolica tanto quanto reale.
Un’agricoltura “di nicchia” che sostiene reddito locale
Per molti agricoltori, il carciofo non è solo un prodotto, ma un presidio colturale. Anche se non occupa la superficie degli agrumi, ha valore aggiunto, legami con trasformazioni locali, canali di vendita ossia parte fresca, trasformata. La sua sparizione aggraverebbe la già fragile diversificazione agricola dell’isola.
Interconnessione tra filiere agricole
La crisi idrica non colpisce solo i carciofi. Agrumi, meloni, angurie hanno già segnato perdite produttive pesanti, ad esempio, le arance vengono vendute a prezzi inferiori perché più piccole, con una perdita stimata del 50% del fatturato per gli agricoltori. Le coltivazioni orticole, che richiedono irrigazione più costante, sono state tra le prime a soccombere.
Una “caduta” del comparto carciofico aggraverebbe l’uscita di ulteriori aziende dal mercato, con un effetto domino: meno produzione complessiva, meno risorse per investimenti, aumento del rischio abbandono del suolo.
L’identità agricola in pericolo
L’agricoltura in Sicilia non è solo economia: è patrimonio culturale, paesaggio, relazioni sociali e tradizioni territoriali. La perdita di un prodotto simbolico rischia di erodere anche il senso di appartenenza delle comunità agricole. Quando l’identità diventa parte del discorso politico, significa che la posta in gioco supera il mero reddito.
Prospettive e fattori di inversione
Il solo richiamo alle responsabilità non basta: servono proposte concrete, misure realistiche, visione strategica. Ecco alcune direttrici possibili, alcune già citate dagli interessati, altre rintracciabili nel dibattito tecnico. Innanzitutto la riforma dei Consorzi di Bonifica che deve essere riformata definitivamente la governance dei consorzi, riducendo sprechi, ridisegnando i bacini irrigui e introducendo criteri di efficienza. La riforma va approvata con urgenza, non sospesa. Sono inoltre neecssari investimenti nella rigenerazione delle reti irrigue, ossia riparare le condotte colabrodo, sostituire porzioni di canali inefficienti, costruire vasche intermedie: sono interventi necessari per recuperare acqua “sprecata”. È arrivato il momento, inoltre di pensare a tecnologie irrigue moderne e sostenibili come l’irrigazione a goccia, sistemi a recupero, automazione, monitoraggio del suolo e delle risorse. Incentivi pubblici e fondi europei dovrebbero essere vincolati all’efficientamento idrico. Servono opere strutturali regolari, quali dighe, invasi e bacini con il completamento e gestione integrata con bacini come Pietrarossa e altre opere, affinché l’acqua disponibile sia regolata nei momenti critici. Occorre che gli enti di bacino, la Regione, i comuni, le associazioni agricole operino in sinergia. Un piano idrico regionale, con scenari clima-demografico, è indispensabile. Occorre che le colture che rischiano di scomparire, come il carciofo, siano oggetto di misure specifiche (sussidi, agevolazioni, assicurazioni agricole) per superare la transizione. È chiaro che deve essere trovato un equilibrio tra acqua potabile, ambiente, agricoltura. Il diritto all’acqua non può appiattire la sopravvivenza produttiva e che ogni intervento, quali riparazioni, contratti di fornitura, acquisizione pompe e stanziamenti, vada monitorato con rendiconti pubblici per evitare corruzione o inefficienze.
Conclusione: tra accuse e responsabilità, il tempo è breve
Una cosa, nella confusione complessiva, però, è chiara: la Sicilia non può permettersi di perdere i suoi “prodotti di punta” né di perdere pezzi della propria identità. Le responsabilità politiche e istituzionali non sono affatto remote: il governo regionale ha il dovere di spiegare cosa ha fatto, cosa attiverà e con che tempi. Le misure emergenziali avviate finora servono a poco senza una visione sistemica e strutturale. I produttori non chiedono regali: chiedono infrastrutture efficienti, regole chiare e priorità politiche serie. Se il carciofo, dopo arance, meloni, angurie, dovesse veramente scomparire dalla Sicilia, l’isola perderebbe qualcosa che non si misura soltanto in quintali di prodotto: perderebbe un tassello della propria memoria e del proprio futuro rurale.








































