La sera del 23 settembre 1985, nel quartiere Vomero di Napoli, due sicari attesero l’arrivo di Giancarlo Siani sotto casa. Appena il giovane cronista ventiseienne collaboratore de Il Mattino, parcheggiò la sua Citroën Méhari verde, fu freddato con dieci colpi di pistola alla testa. Siani venne assassinato dalla camorra a causa del suo lavoro di giornalista: con onestà e acume raccontava i delitti e gli affari dei clan, svelando ciò che questi volevano mantenere occulto. A decenni di distanza, la figura di Siani resta un simbolo di coraggio e impegno civile nel giornalismo, e il suo messaggio è “sempre più attuale… rivolto a tutta la società civile”.
Una voce fuori dal coro nel giornalismo napoletano
Giancarlo Siani nacque a Napoli il 19 settembre 1959, crescendo in una famiglia della media borghesia nel quartiere Vomero. Sin da studente mostrò passione per il giornalismo e l’impegno civile: partecipò ai movimenti studenteschi di fine anni ’70 e, iscritto alla facoltà di Sociologia, collaborò con periodici locali dedicandosi ai temi dell’emarginazione sociale. In quegli anni contribuì a fondare il Movimento Democratico per il Diritto all’Informazione, partecipando a convegni sulla libertà di stampa, e scrisse i primi articoli per la testata sindacale Il Lavoro nel Sud.
All’inizio degli anni ’80 Siani avviò la collaborazione con il quotidiano napoletano Il Mattino. Fu assegnato come corrispondente dalla zona di Torre Annunziata, operando dalla redazione decentrata di Castellammare di Stabia. In quel ruolo era un giornalista precario, pagato ad articolo, ma la precarietà non ne intaccò l’entusiasmo. Siani frequentava assiduamente la redazione, “consumando le suole delle scarpe” in cerca di notizie, nella speranza di ottenere un contratto da praticante per diventare professionista. Proprio quattro giorni prima di morire, al suo 26º compleanno, brindò felice alla notizia che la direzione de Il Mattino aveva pronta la sua assunzione stabile.
In pochi anni Siani pubblicò centinaia di articoli denunciando senza filtri il “perverso intreccio tra malavita e politica” che opprimeva Napoli e provincia. Sul Mattino curava la cronaca nera dell’area oplontina, studiando i rapporti di forza e le gerarchie dei clan camorristici che controllavano Torre Annunziata e dintorni. Collaborava anche con l’Osservatorio sulla Camorra diretto dal sociologo Amato Lamberti, per approfondire ulteriormente il fenomeno camorristico. La sua penna fece nomi e cognomi di boss e politici collusi, raccontando faide, alleanze criminali e degrado delle periferie abbandonate, senza paura. Per questa sua tenacia fu definito dallo scrittore Erri De Luca “il giornalista scalzo”, immagine evocativa di un giovane cronista sempre sul campo, umile e determinato.
Napoli anni ’80: camorra e verità nascoste
Nella Napoli degli anni Ottanta la camorra imperversava, divisa in fazioni sanguinose sullo sfondo del post-terremoto. Dopo il devastante sisma dell’Irpinia del 1980, ingenti fondi affluirono per la ricostruzione, attirando gli appetiti della criminalità organizzata. Giancarlo Siani documentò come in quel periodo fossero nate stabili collusioni tra politici locali e boss: ad esempio scoprì che all’indomani del terremoto esponenti politici di Torre Annunziata avevano stretto patti con il boss Valentino Gionta, permettendogli di infiltrarsi negli appalti pubblici e di controllare il lucroso traffico di droga sul territorio. Gionta, un ex pescivendolo divenuto padrino camorrista, era emerso negli anni ’80 come capo dell’omonimo clan, dominando il contrabbando e poi il narcotraffico nella zona di Torre Annunziata.
Parallelamente, la camorra viveva una fase di guerra interna. Siani si ritrovò a raccontare le faide esplose dopo la caduta del vecchio boss Raffaele Cutolo (della Nuova Camorra Organizzata) e l’ascesa della cosiddetta Nuova Famiglia, alleanza di clan rivali. In particolare, nel circondario oplontino operava il clan Gionta, storicamente alleato dei Nuvoletta, la potente famiglia camorrista di Marano legata a Cosa Nostra siciliana, mentre più a nord si espandeva il cartello dei Casalesi guidato da Antonio Bardellino, anch’esso parte della “Nuova Famiglia”. Le tensioni degenerarono nella strage di Torre Annunziata dell’agosto 1984: un violento agguato che fece 8 morti e 24 feriti tra gli uomini del clan Gionta. Dopo quel massacro i rapporti tra i Nuvoletta e i loro alleati oplontini si incrinarono, innescando nuovi intrighi e tradimenti nei vertici criminali.
Tradizionalmente la camorra, a differenza di Cosa Nostra, evitava di assassinare i giornalisti scomodi per non attirare troppo clamore. “La camorra non uccide i giornalisti ma la mafia sì”, osserva infatti Paolo Siani, fratello di Giancarlo. Eppure, nel caso di Giancarlo Siani quel tacito “codice” saltò. La giovane penna del Mattino si stava avvicinando troppo a verità scottanti quali intrecci fra clan e retroscena di arresti eccellenti, che i boss volevano tenere nascoste. La camorra decise così di fare un’eccezione, eliminando quel giornalista coraggioso che stava minando dall’interno l’omertà del sistema criminale.
Le inchieste scomode di Siani
Giancarlo Siani aveva affinato un metodo investigativo acuto, costruendosi una rete di fonti sul territorio, anche nelle forze dell’ordine, per capire i retroscena dei fatti di camorra. Le sue inchieste principali riguardarono i rapporti economici tra clan, le alleanze segrete e i tradimenti consumatisi durante la guerra di camorra. In particolare, Siani intuì che la chiave per spiegare certe dinamiche stava nel “seguire i soldi” e nel comprendere la moneta di scambio fra boss: appalti, soffiate ai rivali, patti di non belligeranza.
In un articolo clamoroso, pubblicato il 10 giugno 1985 su Il Mattino, Siani svelò un retroscena destinato a costargli la vita. Il giornalista accusò apertamente il clan Nuvoletta (alleato dei Corleonesi di Totò Riina) e il clan Bardellino (esponente della Nuova Famiglia) di aver deciso di “vendere” alle autorità il boss Valentino Gionta. Dopo la strage del 1984, Gionta era diventato un alleato ingombrante e pericoloso: consegnarlo ai carabinieri in cambio della pace coi rivali Casalesi fu il patto scellerato stretto tra i Nuvoletta e Antonio Bardellino. Siani, grazie alle sue fonti, poté scrivere che l’arresto di Valentino Gionta fu reso possibile proprio da una soffiata degli ormai ex-alleati Nuvoletta. Il boss oplontino venne infatti catturato mentre usciva dalla tenuta di Lorenzo Nuvoletta a Marano, e secondo i collaboratori di giustizia ciò avvenne perché i Nuvoletta avevano deciso di sacrificarlo per ottenere una tregua con i Casalesi.
L’articolo di Siani del 10 giugno 1985 fece scalpore. I fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta compresero di essere stati smascherati pubblicamente. Agli occhi degli altri boss napoletani e dei vertici di Cosa Nostra essi facevano ora la figura degli “infami”, di coloro che avevano tradito il codice d’onore mafioso collaborando con le forze dell’ordine. Furiosi per la rivelazione, iniziarono a pianificare la vendetta. Si tennero diversi summit camorristici per decidere in che modo eliminare il giovane cronista. Perfino Valentino Gionta, che pure era stato “venduto” ed era in carcere, secondo alcune ricostruzioni mostrò inizialmente reticenza all’idea di uccidere un giornalista, ma il destino di Siani era segnato. Nel corso di Ferragosto 1985 i Nuvoletta presero la decisione definitiva: Giancarlo Siani doveva morire, e lontano da Torre Annunziata, così da sviare eventuali sospetti sulla matrice dell’omicidio.
Va detto che Siani non era pienamente consapevole del pericolo imminente in cui si trovava, oppure, se lo era, non fece in tempo a prendere precauzioni. Continuò a lavorare alacremente. Stava addirittura preparando un libro-inchiesta sui rapporti tra politica e camorra negli appalti della ricostruzione post-terremoto, un altro tema scottante su cui aveva raccolto materiale. Nulla lasciava presagire che di lì a poco i camorristi sarebbero passati all’azione contro di lui.
L’agguato del 23 settembre 1985
La sera del 23 settembre 1985 Giancarlo Siani si attardò in redazione, presso la sede centrale de Il Mattino a via Chiatamone, Napoli. Prima di rincasare fece una telefonata al suo amico e maestro Amato Lamberti, il direttore dell’Osservatorio sulla Camorra, chiedendogli un incontro urgente per parlargli di cose che “è meglio dire a voce”. Non sapremo mai cosa Siani avesse scoperto o quale timore volesse confidare a Lamberti: l’incontro non avvenne: poche ore dopo, alle 20:30 circa, il commando di fuoco era già appostato in via Vincenzo Romaniello sotto l’abitazione di Siani.
Quando Giancarlo arrivò sotto casa a bordo della sua Méhari, i killer entrarono in azione. Erano due uomini a volto scoperto, giunti probabilmente in moto poco prima. Si avvicinarono all’auto e crivellarono Siani con 10 proiettili di pistola calibro 7.65, tutti diretti alla testa. L’azione fu rapidissima e spietata. Il giovane giornalista non ebbe scampo né possibilità di reagire, morendo sul colpo al posto di guida. I sicari immediatamente fuggirono via in motocicletta, dileguandosi nella notte.
La mattina seguente Napoli si svegliò con la notizia dell’assassinio di un giornalista. Inizialmente la morte di Siani poteva sembrare l’ennesimo omicidio di camorra in una città abituata alle violenze di clan. Ma presto fu chiaro che a essere stato colpito non era un affiliato, bensì un cronista scomodo, un giovane che aveva sollevato il velo sugli affari dei boss. I colleghi del Mattino e l’opinione pubblica presero coscienza che la camorra aveva osato mettere a tacere un giornalista. L’ordine di uccidere Siani, come emerse più tardi, era partito dai vertici del clan Nuvoletta, con l’avallo del padrino corleonese Totò Riina, proprio in conseguenza delle rivelazioni pubblicate dal cronista su quella faida interna. Per la prima volta la camorra napoletana aveva colpito un operatore dell’informazione, lanciando un sinistro segnale a chiunque tentasse di raccontarne i segreti.
Indagini e processi: la lunga strada verso la giustizia
Le indagini sull’omicidio Siani inizialmente procedettero a rilento, ostacolate dall’omertà e dalla mancanza di testimoni. Gli assassini, fuggiti in moto, non lasciarono tracce evidenti quella notte. Solo a distanza di anni emersero elementi decisivi grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti di camorra. Salvatore Migliorino, affiliato al clan Gionta, e Ferdinando Cataldo, coinvolto nell’agguato, furono tra i collaboratori di giustizia che permisero di risalire ai mandanti dell’omicidio. Le loro rivelazioni indirizzarono i magistrati verso Marano, feudo dei fratelli Nuvoletta, facendo finalmente luce sul movente e sugli esecutori del delitto Siani.
Ci vollero comunque oltre undici anni per arrivare a una sentenza. Il 15 aprile 1997 la seconda sezione della Corte d’Assise di Napoli emise le prime condanne esemplari. Furono condannati all’ergastolo come mandanti Angelo Nuvoletta, boss di Marano, e Luigi Baccante, insieme ai killer materiali Ciro Cappuccio e Armando Del Core. In quello stesso processo venne indicato come mandante anche Valentino Gionta, nonostante la sua presunta contrarietà iniziale all’omicidio mentre era detenuto. La sentenza segnò un punto fermo perchè lo Stato riconosceva ufficialmente che ad armare la mano dei sicari erano stati i vertici camorristici colpiti dalle inchieste di Siani.
Il percorso giudiziario tuttavia non era concluso. Nel 2001 la Corte di Cassazione confermò le condanne all’ergastolo per i Nuvoletta, Baccante e gli esecutori, ma dispose un nuovo processo d’appello per Valentino Gionta, ritenendo non completamente provato il suo ruolo mandante. Il secondo processo d’appello, conclusosi il 29 settembre 2003, ribadì la colpevolezza di Gionta, condannandolo di nuovo all’ergastolo. Tuttavia, nel 2004 la Cassazione emise il verdetto definitivo: Gionta venne assolto “per non aver commesso il fatto”, uscendo così dall’elenco dei mandanti ufficiali dell’omicidio Siani. In sostanza, rimasero come mandanti accertati i Nuvoletta, tranne Lorenzo, capo-clan, nel frattempo deceduto, e il loro luogotenente Baccante, mentre Gionta, pur beneficiario della famosa “soffiata”, non fu ritenuto giudiziariamente responsabile della decisione di uccidere il cronista.
Negli anni successivi emersero anche teorie alternative sull’omicidio. Nel 2014 il giornalista Roberto Paolo pubblicò il libro-inchiesta Il caso non è chiuso, ipotizzando un coinvolgimento differente di esecutori e mandanti rispetto a quelli condannati. Questo studio portò la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli a riaprire temporaneamente il caso: il fascicolo fu affidato ai PM Enrica Parascandolo e Henry John Woodcock per verifiche. Tuttavia, dopo approfondimenti, l’indagine bis venne archiviata per mancanza di riscontri concreti alle nuove ipotesi. La verità processuale sull’omicidio Siani è dunque rimasta quella consacrata dalle sentenze definitive: Giancarlo fu ucciso per volontà dei Nuvoletta, affiliati a Riina, e per mano dei loro sicari, come ritorsione alle sue rivelazioni sui retroscena della camorra.
L’eredità di Siani: memoria, riconoscimenti e testimonianze
La tragica morte di Giancarlo Siani suscitò profonda commozione e indignazione nell’opinione pubblica, ma la sua figura con il tempo è divenuta anche simbolo di riscatto. Ogni anno, a fine settembre, Napoli e l’Italia ricordano il giovane cronista con iniziative, cerimonie e momenti di riflessione. In innumerevoli luoghi del Paese il nome di Siani è stato onorato: scuole, strade, biblioteche e sale sono state intitolate in sua memoria, affinché il suo esempio resti vivo. A Torre Annunziata, il campo principale delle sue battaglie giornalistiche, il Secondo Circolo didattico porta il suo nome, così come altre scuole in Campania e oltre. Una rampa stradale adiacente al luogo dell’omicidio, nel quartiere Arenella di Napoli, oggi si chiama Rampe Giancarlo Siani, a ricordare per sempre dove la sua vita fu spezzata.
Molti riconoscimenti sono stati istituiti in suo onore. Dal 2004 esiste il Premio Giancarlo Siani, assegnato a giornalisti impegnati nella cronaca e nella denuncia civile. Il 4 giugno 2008 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha presenziato a una cerimonia commemorativa a Napoli, intitolando a Giancarlo un’aula della Scuola di Giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa. Numerose opere culturali hanno poi raccontato la sua storia, tenendone viva la memoria nel grande pubblico: nel 2009 il regista Marco Risi ha portato al cinema il film Fortapàsc, che ricostruisce l’ultimo anno di vita di Siani interpretato dall’attore Libero De Rienzo. Sempre nel 2009 è nata Radio Siani, web radio anticamorra con sede in un bene confiscato alla camorra a Ercolano. Negli anni sono usciti diversi libri che raccolgono i suoi articoli e testimonianze sulla sua breve ma intensa carriera.
Uno dei simboli più forti legati alla memoria di Siani è la sua Citroën Méhari verde. Quell’auto scoperta, divenuta tristemente famosa come il luogo del suo assassinio, è stata recuperata e trasformata in un monumento itinerante alla legalità. A 28 anni dall’omicidio, il 23 settembre 2013, la Méhari di Siani è stata esposta a Napoli nella cosiddetta “Rotonda della Legalità”, come installazione commemorativa alta 10 metri a simboleggiare i “dieci colpi” che lo uccisero e la data del 10 giugno 1985, giorno in cui la camorra ne decretò la condanna a morte. Oggi la Méhari viene mostrata in varie manifestazioni ed eventi educativi, di recente è stata ospitata presso Villa Bruno a San Giorgio a Cremano, affinché le nuove generazioni conoscano la storia di Giancarlo attraverso i luoghi e gli oggetti della sua vita. “Questa straordinaria famiglia della legalità continua a portare avanti il suo messaggio che è rivolto soprattutto ai giovani”, ha commentato il presidente dell’Ordine dei giornalisti campani, Ottavio Lucarelli, riferendosi proprio al viaggio simbolico della Méhari e alla famiglia Siani impegnata nella memoria.
Fondamentale, infatti, è stato il ruolo della famiglia di Giancarlo Siani, in primis il fratello Paolo e i suoi amici, nel preservarne il ricordo e i valori. Paolo Siani, oggi medico e deputato impegnato nell’antimafia sociale, è divenuto il portavoce dell’eredità morale di Giancarlo. “Giancarlo era un ragazzo normale che aveva il sogno di fare il giornalista… La camorra non uccide i giornalisti ma la mafia sì”, ha detto Paolo per sottolineare quanto sia speciale il caso di suo fratello e quanto sia importante non lasciar soli i cronisti minacciati. In occasione del 40º anniversario, Paolo ha evidenziato come dopo tanti anni “il ricordo resta vivo” e come la “semina di questi 40 anni sta dando i suoi frutti”, con una rinnovata attenzione verso i temi per cui Giancarlo lottava. “Memoria e impegno legati l’uno all’altra, separati non hanno senso”, ha dichiarato, citando le parole di don Luigi Ciotti: ovvero ricordare Giancarlo significa anche portarne avanti l’impegno civile.
Diversi colleghi e osservatori hanno nel tempo riflettuto sul contesto in cui Siani operò, ammettendo che all’epoca egli fu lasciato solo nella sua battaglia. “Giancarlo è stato ucciso perché fu lasciato solo da una categoria che lo aveva abbandonato”, ha riconosciuto il giornalista Pietro Perone de Il Mattino, ricordando come negli anni immediatamente successivi al delitto persino il suo giornale avesse esitato a celebrarne la memoria. Geppino Fiorenza, storico attivista di Libera in Campania, ha parlato del “grande dolore” di sapere che “quella sera del 23 settembre 1985 [Giancarlo] non fu sufficientemente difeso come doveva”, sottolineando quanto ciò pesi ancora sulla coscienza di chi avrebbe dovuto proteggerlo. Queste ammissioni postume evidenziano come Siani, giovane cronista precario, non ebbe all’epoca né scorta né particolari tutele: la sua sola “arma” era la penna con cui scriveva la verità.
Oggi, tuttavia, Giancarlo Siani non è più solo un nome su una lapide, ma un esempio luminoso per le nuove generazioni di giornalisti e cittadini. Le più alte cariche dello Stato ne hanno riconosciuto il sacrificio: “Giancarlo Siani è stato testimone del miglior giornalismo: sarà sempre un esempio di coraggio e di professionalità per chi ha lavorato con lui e per chi intraprende, con idealità e passione, la strada del giornalismo”, ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio ufficiale per il 35º anniversario dell’uccisione. Mattarella ha ricordato che “il sacrificio di Giancarlo Siani resterà nella coscienza di tante persone oneste” e che “le condanne inferte ai killer e ai mandanti… sono una prova ulteriore che le mafie possono essere sconfitte”. Parole che confermano come la vicenda Siani abbia lasciato un segno indelebile nella storia della lotta alle mafie in Italia.
A quarant’anni dalla morte, il testimone di Giancarlo è passato alle nuove generazioni. Il suo taccuino ideale continua ad essere riempito da cronisti che, ispirati dal suo coraggio, portano avanti inchieste sulla criminalità organizzata e sulle ingiustizie sociali. Paolo Siani, rivolgendosi ai giovani aspiranti reporter, li sprona così: “Fate bene il vostro lavoro, con la schiena dritta. Chi fa il giornalista deve raccontare i fatti. E se sono veri, anche se scomodi, vanno raccontati”. È questa la grande lezione che ci lascia Giancarlo Siani: l’idea che la verità va detta, sempre, perché solo la luce dell’informazione può sconfiggere l’ombra della violenza mafiosa. Giancarlo, con la sua breve vita spezzata, ce lo ha insegnato. E il suo sorriso giovane, impresso nei murales e nelle foto d’epoca, continua a ricordarci che “la camorra vale meno di niente”, come recitava uno striscione ai suoi funerali, mentre valgono tantissimo la libertà, la dignità e il coraggio di chi sceglie di raccontare la verità.
Roberto Greco







































