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Mer, 12 Nov 2025
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Il Generale Giovanni Truglio, dalla lotta alla mafia all’impegno civile

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L’ingresso del Generale di Corpo d’Armata Giovanni Truglio nella Fondazione Insigniti OMRI segna una nuova tappa nel suo lungo cammino di servizio al Paese. Una carriera durata quasi mezzo secolo, guidata dall’etica del dovere e da una dedizione totale alle istituzioni, non si interrompe con il congedo dall’uniforme, ma si rinnova oggi nella dimensione civile e culturale, con la stessa passione con cui ha guidato reparti in Italia e all’estero, dalla Somalia alla Bosnia, dall’Iraq all’Albania.

Il Generale Truglio è stato tra le figure più autorevoli nella lotta alla criminalità organizzata, avendo diretto reparti strategici dell’Arma e, soprattutto, avendo fatto parte della Direzione Investigativa Antimafia. Una missione che lo ha portato ad affrontare le più complesse sfide della lotta a Cosa Nostra, alla ndrangheta e alle altre organizzazioni mafiose, sul piano delle investigazioni giudiziarie e soprattutto economiche, dove la battaglia si gioca ancora oggi. Come lui stesso racconta, «sono stato alla DIA per tre anni come capo del primo reparto investigazioni preventive a Roma, e in effetti la mia esperienza ha riguardato soprattutto il settore delle indagini patrimoniali. Il fine era sequestrare e poi portare a confisca patrimoni considerati illeciti. Questo era il nostro lavoro: indagini patrimoniali e misure di prevenzione, per togliere ossigeno economico alla mafia».

Un’attività che in Sicilia si rivelò decisiva. «Ricordo che facemmo tanti sequestri legati a misure di prevenzione patrimoniali. Il nostro compito era individuare i settori dell’economia legale infiltrati dalla criminalità organizzata e capire dove fossero i soldi sporchi, come si fosse sviluppato il ciclo del denaro, in cosa si fosse realizzato il guadagno illecito. Bisognava colpire il substrato economico della mafia, renderla meno conveniente e spossessare chi deteneva ricchezze accumulate illecitamente».

Il Generale sottolinea come già allora fosse evidente l’abilità della mafia di infiltrarsi in silenzio nel tessuto imprenditoriale, con modalità subdole e invisibili, che solo un’attenta attività investigativa poteva intercettare. «Gli ambiti erano tantissimi: l’energia eolica e le energie alternative, il turismo, i lavori pubblici, l’edilizia, il movimento terra. Molti imprenditori, inizialmente vittime del racket, capirono che era più conveniente diventare complici. Così le imprese, anche senza legami diretti, diventavano mafiose: godevano della protezione dell’organizzazione, accedevano a finanziamenti, entravano negli appalti pubblici drogati dal sistema di Cosa Nostra».

Dietro queste dinamiche si celava quello che Truglio definisce «il sistema», una rete che metteva insieme mafia, imprenditoria deviata e politica locale, capace di pilotare commesse e drenare risorse pubbliche. «Il nostro obiettivo era fermare tutto questo, sequestrare società e imprese in Sicilia e oltre, colpendo le infiltrazioni anche fuori regione, laddove la mafia esportava i suoi capitali».

Ma quali erano le difficoltà maggiori di queste indagini? «Serviva molta attenzione e scrupolo, perché spesso i beni erano intestati a familiari, conviventi o prestanome senza alcuna competenza imprenditoriale. Bastava un piccolo segnale per avviare un approfondimento: flussi finanziari sospetti, cessioni di quote societarie a persone insospettabili. Anche l’intuito, maturato con l’esperienza, diventava fondamentale».

Nel ricordare il suo percorso, il Generale evidenzia l’importanza del lavoro di squadra e della sinergia tra apparati investigativi. «Già allora si assunse per sistema che tutte le persone considerate parte dell’associazione mafiosa dovevano essere oggetto di indagini patrimoniali. Furono sviluppati strumenti informatici per stilare vere e proprie graduatorie, individuando gli obiettivi più remunerativi da colpire. Non era più una scelta facoltativa, ma un metodo strutturato e condiviso».

Ed è proprio sulla collaborazione interforze che Truglio non ha dubbi: «oggi funziona bene, perché le procure della Repubblica coordinano le indagini e decidono quali filoni assegnare ai carabinieri, alla polizia o alla guardia di finanza. Non c’è alcuna competizione, ma la consapevolezza di far parte di uno sforzo comune dello Stato. Ognuno fa la sua parte in una battaglia che è di tutti».

Anche sul piano culturale, il Generale è netto quando gli si chiede un commento alle recenti dichiarazioni del figlio di Totò Riina, tese a ridimensionare la responsabilità del padre nelle stragi. «Io non darei tutta questa importanza a dichiarazioni del genere. Ci sono sentenze passate in giudicato, una ricostruzione storica consolidata e un lavoro enorme fatto negli anni. Non dobbiamo preoccuparci di teorie complottiste: quello che conta è la realtà dei fatti, dimostrata nei processi».

Oggi, con la sua adesione alla Fondazione Insigniti OMRI, il Generale Truglio rinnova il suo servizio al Paese, mantenendo fede a un principio che ha guidato ogni tappa della sua vita: servire la collettività. «Avere un passato e un presente nelle istituzioni significa aver servito il Paese in maniera convinta. E oggi, soprattutto al Sud, c’è bisogno di diffondere la cultura della legalità. Il rispetto delle norme non va vissuto come imposizione, ma come forma di tutela per tutti. Anche un piccolo contributo, se fatto bene, significa dare qualcosa al bene comune. L’importante è lasciare dietro di sé azioni che parlano da sole».

La sua storia dimostra che la lotta alla mafia non si esaurisce nei tribunali o nelle indagini, ma continua nella costruzione di una coscienza collettiva fondata sulla legalità e sulla responsabilità. Un’eredità che oggi la Fondazione si impegna a trasmettere alle nuove generazioni, con l’esempio di chi, come Giovanni Truglio, ha fatto del servizio allo Stato la ragione di una vita intera.

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