La storia della cooperativa Sicily Food Belìce Valley, fondata dall’avvocata Valentina Blunda: un progetto nato per tutelare i produttori locali, valorizzare olio e olive DOP e ridare vita a un bene confiscato alla mafia.
Trasformare i beni confiscati alla mafia in strumenti di sviluppo. Valorizzare un prodotto unico come la nocellara del Belìce nei mercati internazionali. Unire i produttori in un modello cooperativo trasparente e sostenibile. È questa la scommessa della Sicily Food Belìce Valley, cooperativa nata a fine 2022 e già punto di riferimento per 43 soci e 330 ettari di uliveto.
Ne abbiamo parlato con l’avvocata Valentina Blunda, fondatrice e presidente, che ci ha raccontato le origini e le prospettive di questa realtà che coniuga tradizione agricola, legalità e innovazione.
Lei è avvocato cassazionista. Com’è nata la sua avventura imprenditoriale?
«Negli anni ’90 mio padre, che era professore di filosofia e dirigente scolastico, non un imprenditore agricolo, decise di investire e ampliare i terreni che avevamo ereditato dai nonni. Mise su un’azienda di 25 ettari, che per la zona è considerata medio-grande, suddivisa in uliveti.
Sono figlia unica e ho sempre condiviso con lui l’amore per la terra. Ho deciso sin da subito, dopo la laurea, di non andarmene e restare legata alle mie radici. Mio padre, pur essendo malato dal 2013, continuò a occuparsi dell’azienda finché poté. Da allora sono diventata titolare effettiva e mi sono ritrovata a gestirla direttamente, insieme agli operai.
Occupandomi in prima persona, ho cominciato a rendermi conto delle difficoltà dei produttori, soprattutto per le olive da tavola. Noi siamo in un’area a doppia DOP, riconosciuta sia per l’olio sia per le olive da mensa, prodotte solo in tre comuni: Partanna, Castelvetrano e Campobello di Mazara. Ma il problema è che le olive devono essere lavorate subito dopo la raccolta, costringendo i produttori a venderle a grossisti locali che spesso dettavano le condizioni.
Nel 2022, dopo una grandinata che distrusse gran parte del raccolto senza alcuna variazione di prezzo, io e altri 11 produttori decidemmo di fondare la cooperativa. Inizialmente pensata per l’olio, perché sulle olive avevamo più timori. Poi, dopo le prime fiere internazionali e il contatto con operatori esteri, ci siamo resi conto che le olive erano ricercatissime, soprattutto negli Stati Uniti. Da lì è nata l’idea di aprire anche il nostro stabilimento per lavorarle.
All’inizio nessuno ci credeva. Ci siamo autofinanziati con grande sacrificio, anche grazie ad amici imprenditori che ci hanno concesso attrezzature a pagamento dilazionato. Oggi, con il lavoro gratuito e l’impegno di tutti, siamo riusciti a far crescere la cooperativa».
La cooperativa si è sviluppata anche grazie all’utilizzo di beni confiscati alla mafia. Che valore ha avuto questa scelta?
«Per me è un motivo di grande orgoglio. Da avvocato e operatore della giustizia, ho sempre visto nella mia zona tanti beni confiscati andare in rovina. Noi siamo venuti a conoscenza di un opificio confiscato definitivamente, ancora dotato di parte delle attrezzature.

Con l’aiuto della Lega delle Cooperative abbiamo contattato l’agenzia e partecipato a un’asta telematica. Ci siamo aggiudicati alcuni macchinari, come l’impianto per lavorare le olive con la soda, che nuovo ci sarebbe costato 15-18 mila euro. Questo ci ha permesso di contenere i costi e mandare un messaggio forte: trasformare un bene mafioso in uno strumento a vantaggio della collettività.
Abbiamo sempre operato senza finanziamenti diretti, autofinanziandoci. Solo nel 2024, grazie al riconoscimento come OP (Organizzazione di Produttori), siamo riusciti ad accedere a fondi OCM, ottenendo circa 180 mila euro a fondo perduto per rinnovare le attrezzature».
Come ha reagito la comunità agricola locale?
«All’inizio eravamo 12 soci, oggi siamo 43. Questo dimostra che il progetto è stato accolto positivamente, anche se non mancano diffidenze: qui le esperienze di cooperazione passata non sempre sono state felici.
Oggi però gestiamo 330 ettari di uliveto e siamo una delle realtà più grandi della Valle del Belìce. Abbiamo saldato i conti con tutti i soci e avviato persino un secondo stabilimento. La trasparenza e i risultati parlano per noi: chi vuole unirsi al progetto è benvenuto, ma pretendiamo serietà e competenza».
Oltre alla legalità, puntate anche sulla sostenibilità. In che modo?
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«Dal punto di vista ambientale, diversi nostri soci producono già in biologico. Stiamo certificando entrambi gli stabilimenti per la produzione bio, così da poter lavorare olive e olio certificati.
Sul piano economico, la cooperativa è solida: i costi di lavorazione restano allo stabilimento, mentre ai soci viene corrisposto il prezzo pieno delle olive. Questo modello ci permette di autosostenerci senza riversare le spese sui produttori. Produciamo olio DOP, IGP e bio, appoggiandoci a un frantoio esterno, ma guardiamo al futuro con l’idea di costruirne uno nostro».
Guardando al futuro, quali sono i prossimi obiettivi?
«Vogliamo chiudere la filiera. Finora abbiamo venduto il prodotto semilavorato in fusti da 140 kg alle grandi industrie alimentari. Il prossimo obiettivo è realizzare un impianto di confezionamento con pastorizzazione, per produrre vasetti destinati direttamente alla GDO.
In futuro potremo anche pensare a un nostro frantoio. Siamo cresciuti abbastanza da poterci permettere investimenti più strutturati, anche con il supporto del credito bancario. Rimaniamo però con i piedi per terra: la strada è lunga, ma i risultati finora ci rendono soddisfatti».
Samuele Arnone








































