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Mer, 12 Nov 2025
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Mauro Rostagno, chi tocca gli interessi della mafia muore

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Mauro Rostagno, sociologo, giornalista e attivista politico, ma soprattutto uomo dalle mille sfaccettature. Negli anni Sessanta era stato tra i fondatori di Lotta Continua e aveva diretto quotidiani e progetti culturali, come la rivista Macondo. Dopo un lungo viaggio in India, nel 1987 si stabilì in Sicilia, spostandosi a Trapani per dirigere la comunità terapeutica “Saman” con la compagna Elisabetta “Chicca” Roveri e l’amico Francesco Cardella. Sua sorella Carla ricorda che Rostagno “ha vissuto tante vite”: da direttore del comitato studentesco a Torino, a militante di Lotta Continua, fino ad approdare a Trapani con la comunità Saman. Laureato in sociologia e impegnato nel sociale, Rostagno e portava con sé ideali di giustizia e impegno civile.

L’attività giornalistica e le denunce a Trapani

Parallelamente al lavoro con Saman, Rostagno iniziò a collaborare con la tv privata locale Radio Tele Cine (RTC) di Trapani, diventandone ben presto il volto più noto. Il suo approccio era innovativo: portava la telecamera in strada, intervistava i cittadini sui loro problemi e denunciava apertamente le collusioni tra mafia, politica e massoneria. Realizzò inchieste sui “poteri forti” di Trapani, intervistando magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che gli davano fiducia, parlando della mafia “non con le coppole e le lupare, ma di quella con i colletti bianchi dei salotti bene”.

Rostagno evidenziava come Trapani fosse una città “dopata” da nepotismo e favori facili: “la città era drogata, convinta di vivere nel benessere: avere facili assunzioni, documenti a casa, pensioni di vantaggio”. Ben presto individuò che quella finta tranquillità era in realtà “assoggettamento, schiavitù” alle mafie e ai potentati locali. Raccontò le storie di imprenditori che si aggiudicavano appalti senza gare pubbliche e rivendevano appartamenti agli amici “senza tante difficoltà”. Denunciò inoltre la presenza della massoneria deviata nel Trapanese: logge “culturali” frequentate da funzionari e magistrati. Luoghi in cui si tramavano protezioni e assoluzioni per politici collusi.

Un esempio clamoroso del suo giornalismo investigativo è stata l’inchiesta su presunte consegne di armi da Trapani verso rotte internazionali. Rostagno filmò un C-130 militare scaricare casse, ufficialmente di medicinali, e ne dedusse che venivano caricati armamenti diretti verso zone di conflitto. Era convinto che da Trapani mafie e servizi segreti gestissero traffici di armi e droga, ipotesi che diffuse con forza in diverse trasmissioni. La sua vivacità e l’ironia (scrisse anche a Renato Curcio: «ho scelto di non fare tv dietro a una scrivania ma in mezzo alla gente») lo resero scomodo. Come osservò in seguito il giudice Luca Pistorelli, “Trapani non è mai stata sola… la mafia, la massoneria, i servizi segreti… sono un poliedro dove ognuno ha un ruolo”, e Rostagno intendeva squarciare quel velo di omertà con la propria voce.

L’agguato del 26 settembre 1988

La sera del 26 settembre 1988, intorno alle 20.00, Rostagno stava tornando alla comunità Saman con la sua collaboratrice Monica Serra, che lo affiancava regolarmente, dopo essere stato negli studi televisivi di RTC. Mentre percorreva in auto una strada isolata della contrada Lenzi di Valderice, fu atteso da un agguato. Uno o più killer gli spararono alle spalle: Rostagno fu colpito da quattro proiettili di fucile calibro 12 e da due colpi di pistola calibro 38 Special. Secondo i soccorsi, Rostagno venne ucciso sul colpo. Nonostante le ferite, la sua prontezza d’animo permise di ripararsi nella vettura, salvando così la vita alla Serra accanto a lui. L’auto in fiamme, intestata alla compagna Elisabetta Roveri, rimase sul luogo come prova dell’efferato delitto.

I magistrati e la stampa locale riconobbero subito la matrice mafiosa dell’omicidio, considerando Rostagno “un bersaglio per Cosa Nostra”. Tuttavia, le indagini iniziali furono segnate da depistaggi e piste alternative. I Carabinieri guidati dal maggiore Montanti esclusero a lungo il collegamento con la mafia, definendo l’omicidio “commesso da dilettanti”. In un primo momento anche il pm di Trapani ipotizzò dinamiche interne alla comunità Saman o un delitto passionale, accusando perfino la compagna di Rostagno e gli ex di Lotta Continua. Questi falsi filoni, amore tradito, lotte interne all’estrema sinistra e traffici di droga, provocarono una dura stigmatizzazione mediatica della vicenda, oscurando la verità sulla mafia.

Per depistare ulteriormente, fu diffusa la notizia infondata che nell’auto di Rostagno fossero state trovate due siringhe e un rotolo di dollari, insinuazioni mai confermate. Nel frattempo le inchieste giornalistiche e nuove indagini scoprirono elementi gravissimi: il giornale Diario di Enrico Deaglio pubblicò ricostruzioni da cui emerse che agenti dei servizi segreti e delinquenti di Trapani, influenzati dal boss Vincenzo Virga ,avevano consigliato a Rostagno di abbandonare la sua indagine sulla loggia massonica Scontrino. Antonio Ingroia, sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, rilanciò la pista mafiosa a partire dal 1996. Alla scadenza dell’ultima proroga d’indagine, nell’ottobre 2008 Ingroia chiese il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga, capo del mandamento di Trapani e vicino al superlatitante Riina, come mandante dell’agguato. Lo stesso Ingroia denunciò quanto fossero caratterizzate da “dimenticanze, anomalie, negligenze” quelle fasi iniziali in cui venivano ignorate le tracce mafiose.

Trapani negli anni ’80

Negli anni Ottanta Trapani era una città piccola ma permeata da poteri occulti e da una mafia insidiosa. La “mafia trapanese”, alleata dei Corleonesi, gestiva affari nell’edilizia e nelle banche, mentre la massoneria deviata fungeva da trait-d’union con la politica e la burocrazia. Tra gli episodi drammatici di quegli anni si ricordano l’assassinio del pm Giacomo Ciaccio Montalto a Trapani nel 1983 e la strage di Pizzolungo nel 1985. Entrambi segnali della presenza della criminalità organizzata nel territorio. Secondo osservatori e magistrati dell’epoca, a Trapani “c’è la mafia, la massoneria, ci sono i servizi segreti, c’è Gladio”. Un “poliedro” di interessi intrecciati che alimentava clientelismo e impunità locale. In questo contesto i politici trapanesi spesso ignoravano la distanza di sicurezza dai mafiosi e dalla massoneria, consentendo alle cosche di radicarsi nel potere economico e istituzionale.

Il territorio della provincia di Trapani è stato teatro di intrecci oscuri tra logge massoniche «deviate» e clan mafiosi. Le inchieste giudiziarie e le audizioni parlamentari evidenziano come, fin dagli anni ’80, in Sicilia (e in particolare nel trapanese) esistessero società segrete che fungevano da snodo per affari illeciti. Una Relazione Antimafia del 1990 osservava che a Trapani nel “Circolo Scontrino” operava “una preoccupante attività di logge segrete” alleate con “esponenti mafiosi, pubblici funzionari e uomini politici influenti”. Studi storico-accademici confermano che “le logge segrete a Trapani, la seconda città mafiosa più importante, si riuniscono sotto la copertura del Circolo Scontrino”. Anche indagini giornalistiche locali ricostruiscono un sistema pervasivo: nel 1986 la Polizia scoprì che sotto l’insegna del “Centro Studi Scontrino” operavano sei logge clandestine, tra cui Iside, Osiride, Hiram, Cafiero, Ciullo d’Alcamo, e una settima “loggia coperta” detta “loggia C”, con 200 iscritti. Va segnalata la Loggia “Iside 2”, definita dai giudici “organizzazione segreta massonica” nata a Trapani nei primi anni ’80, voluta dall’establishment mafioso per integrare affari criminali e legali. L’esistenza di “Iside 2” è richiamata anche da indagini recenti. La Commissione Antimafia, nel 2016, la individuò come “luogo chiave” dove si componevano “interessi mafiosi, politici e imprenditoriali, compresi quelli riconducibili a Messina Denaro”. Fra le obbedienze regolari operanti a Trapani si segnalano inoltre Hochma n.182 – Trapani, La Concordia n.191 – Erice e Anchise n.222 – Erice. Queste logge riconosciute dal Grande Oriente d’Italia erano centri rituali tradizionali. Tuttavia, in alcuni casi, le appartenenze venivano sfruttate strumentalmente da mafiosi. Il censimento del 2017 contò 19 logge nell’intera provincia trapanese di cui sei operanti a Castelvetrano.

Numerosi esponenti politici, imprenditoriali e criminali del trapanese sono stati indagati o sospettati di legami con le logge. Tra i possibili inquilini delle logge scoperte figuravano: l’assessore regionale DC Francesco Canino e l’ex assessore provinciale DC Salvatore Bambina; il prefetto/questore di Trapani Giuseppe Varchi (iscritto alla P2, tessera n.908); funzionari locali come Filippo Sparla, segretario della CCIAA di Trapani, e Saverio Bonura, vicequestore, e perfino un sacerdote, Don Agostino Coppola (parroco a Trapani e nipote di un boss calabrese. Molti di questi soggetti proseguirono carriere di rilievo nonostante le indagini, come osserva la stampa locale. Accanto a loro erano affiliati boss mafiosi trapanesi: Mariano Agate (Mazara del Vallo), Natale L’Ala (Campobello di Mazara), Mariano Asaro (Castellammare), Vincenzo Rimi (di Alcamo) e Gioacchino Calabrò (uomo di Palermo ricercato per Pizzolungo). Altri nomi emersi nei fascicoli includono il broker Giovanni Grimaudo (direttore del Centro Scontrino e “numero due” della loggia) e, a livello più ampio, boss come Totò Minore e l’ex superlatitante Matteo Messina Denaro, ogghi morto, i cui congiunti risultavano legati agli ambienti massonici locali.

Le inchieste giornalistiche e i fascicoli giudiziari descrivono Trapani come un “laboratorio” in cui mafia e massoneria si saldano. Le commissioni parlamentari antimafia, da quelle degli anni ’80 fino alle più recenti, insistono sull’urgenza di svelare questi intrecci occulti: una rete di protezioni e traffici di appalti, droga e anche armi, in cui le logge segrete hanno svolto un ruolo chiave nel condizionare la vita politica e economica del territorio.

Il processo e le condanne

Nel maggio 2014 la Corte d’Assise di Trapani emise la prima sentenza sul caso: Vincenzo Virga, come mandante, e Vito Mazzara, presunto sicario, furono entrambi condannati all’ergastolo per l’omicidio di Rostagno. Era il trentaseiesimo anniversario del delitto, e nella cittadella giudiziaria trapanese la decisione fu accolta con commozione. Tuttavia, negli anni successivi il destino di Mazzara cambiò perché in appello, nel febbraio 2018, la Corte ribaltò la sentenza di primo grado, assolvendo Mazzara. La procura generale di Palermo impugnò l’assoluzione, chiedendo il ripristino della condanna, ma nel novembre 2020 la Cassazione confermò l’ergastolo per Virga e dichiarò inammissibile il ricorso della Procura sulla posizione di Mazzara. In sostanza, dopo 32 anni si sancì definitivamente che Virga era il mandante, mentre la figura del killer materiale, il Mazzara, restò incerta. Come sottolineò l’avvocato dei familiari Fausto Amato, “è importante che sia stato confermato il contesto mafioso dell’omicidio, ma è un peccato che resti un vuoto sugli esecutori materiali del delitto”.

I giudici hanno inoltre evidenziato il movente mafioso: Rostagno venne eliminato perché dalla sua piccola emittente aveva alzato il velo sugli interessi di Cosa Nostra a Trapani, intrecciati con la politica, gli affari e poteri occulti. È rimasta impressa la definizione di “esemplare” data all’inchiesta di Rostagno: egli parlava di condanne ai boss come esemplari, mentre gli altri giornali definivano esemplari, invece, le loro assoluzioni. In ogni caso il percorso giudiziario ha finalmente riconosciuto la natura mafiosa dell’omicidio e la fondatezza delle inchieste di Rostagno.

Ricordi e riconoscimenti

L’omicidio di Mauro Rostagno non è stato dimenticato. Ogni anniversario è occasione di commemorazioni istituzionali e iniziative civili, spesso organizzate da Libera, dalla Federazione Nazionale Stampa e dall’Ordine dei Giornalisti. Nel 2023 anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Rostagno: in un messaggio ha sottolineato che “la mafia decise di uccidere Rostagno… per la sua attività di denuncia di reti affaristiche e trame organizzate dalle cosche” aggiungendo che “la mafia è la negazione della vita”, motto ripreso dallo stesso Rostagno. Giulio Francese, quale presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, parla di Rostagno come di un uomo dalle “scelte coraggiose”, che “ha scelto di essere Siciliano e di lottare per una Sicilia migliore” e che ha dimostrato “che si può fare grande giornalismo anche da una piccola tv locale: questione di testa ma anche di cuore”.

Anche la famiglia ha dato memoria alle parole di Rostagno. Sua figlia Maddalena, testimone nel processo, spiegò come il padre fosse arrivato a Trapani per essere il “terapeuta della città”. In tv raccontava che i trapanesi vivevano un falso benessere, ingannati da favori e appalti facili. Sua sorella Carla, che per decenni ha cercato la verità, ha affermato che la sentenza di condanna del 2014 ha finalmente riconosciuto il movente mafioso: Rostagno aveva pagato con la vita le sue denunce di malaffare, corruzione e mafia. Libera Piemonte ha promosso nella sua città natale, Torino, un murale commemorativo invitando l’amministrazione a dedicare ufficialmente uno spazio pubblico a Rostagno. Come spiegano gli organizzatori, si tratta di un atto dovuto per ricordare “un nostro concittadino, assassinato dalle mafie, per la sua attività di inchiesta giornalistica”.

Oggi il caso Rostagno è considerato paradigmatico: non solo un episodio di cronaca nera, ma la storia di un giornalista che ha “messo insieme i cocci della conoscenza sulla mafia trapanese e sulla sua intimità con il potere economico e politico”. In ogni ricordo il suo esempio torna alle coscienze come monito: Rostagno, definito “rompicoglioni” dal boss Francesco “Ciccio” Messina Denaro, rimane invece “esemplare” per i giovani che scelgono di fare giornalismo d’inchiesta. La lezione più forte lasciataci dal “giornalista vestito di bianco” è che il silenzio va rotto con verità e coraggio: ricordare Rostagno significa continuare la sua missione, rendendo ognuno di noi, giornalisti e cittadini, sentinelle vigili contro le collusioni mafiose.

Roberto Greco

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