Un tavolo ha sempre due lati. Nel dibattito italiano sulle intercettazioni, strumento cruciale nell’inchiesta penale, un nodo controverso è quanto avviene quando i magistrati stessi finiscono sotto inchiesta. Storicamente il nostro codice impone il c.d. segreto investigativo/istruttorio, ossia il divieto di diffondere qualunque informazione su un’indagine in corso. In base a questo principio, fino a poco tempo fa la legge prescriveva che gli inquirenti evitassero qualsiasi fuga di notizie: ancora oggi i verbali e le registrazioni delle intercettazioni “vengono conservati integralmente presso il PM fino alla sentenza irrevocabile” e possono essere distrutti solo se non utilizzabili (art.269 c.p.p.). In altre parole, le registrazioni restano nell’archivio del procuratore fino a sentenza passata in giudicato, garantendo riservatezza e opportunità di oblio. Inoltre ogni operazione è annotata in un registro riservato (art.267, comma 5 c.p.p. e seguenti) e per legge gli impianti devono essere in dotazione alla Procura, salvo urgenza motivata. L’intercettazione può essere autorizzata solo per reati gravi, tipicamente con pena superiore ai 5 anni, reati di mafia, violenza sessuale, terrorismo, deve essere indispensabile per il caso e viene disposta dal GIP, il giudice delle indagini preliminari. Il legislatore ha addirittura introdotto tetti precisi Ad esempio la legge di marzo 2025 ha ridotto a 45 giorni il limite massimo delle operazioni,con proroghe consentite solo su motivazione specifica.
Per garantire equità, sono poi intervenute riforme mirate. Con la legge Nordio, la L.114/2024, è stata rafforzata la riservatezza. È vietato intercettare qualsiasi conversazione tra imputato e avvocato, a meno che non costituisca “corpo del reato”. Inoltre le intercettazioni devono interrompersi non appena emergano dialoghi vietati dal codice, come quelli coperti da segreto militare o diplomazia. Le conversazioni audio-video irrilevanti, come gli insulti privati o quelli conteneti dati sensibili di terzi estranei, non possono nemmeno essere trascritte dalla polizia giudiziaria. In breve, la legge odierna cerca di evitare “lesioni irreparabili alla dignità della persona” derivanti da eccessi di giustizia mediatica.
Magistrati indagati: il ribaltamento dei ruoli
Ma che succede quando a finire “dall’altra parte del tavolo” non è un boss mafioso o un politico corrotto, ma uno strato superiore della gerarchia giudiziaria? In teoria il diritto prevede che un magistrato indagato non possa partecipare al processo che lo riguarda, sulla base dell’art.51 c.p.p., ma l’impatto mediatico è un’altra questione. In pratica, un magistrato intercettato condivide lo stesso destino degli altri indagati ossia le intercettazioni nei suoi confronti entrano nel fascicolo e possono diventare prova. Tuttavia il rischio è che, se queste conversazioni finissero in mani sbagliate o, peggio, in pasto all’opinione pubblica, si creerebbe un cortocircuito clamoroso. Il figlio di Paolo Borsellino, Manfredi, ha più volte ricordato che “abbiamo sempre vissuto nel silenzio e nella riservatezza”, e si è detto “sgomento” nell’apprendere dai giornali di frasi disgustose rivolte a lui e ai suoi familiari da un collega magistrato.
Il paradosso si è verificato in casi recenti. Prendiamo l’inchiesta “Mafia-appalti”, condotta dalla Procura di Caltanissetta. Nel 2023 sono finiti sotto indagine per favoreggiamento magistrati di punta come l’ex procuratore di Palermo Gioacchino Natoli e l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Le forze dell’ordine li hanno intercettati, legalmente, mentre discutevano tra loro strategie e alleanze. Nel pezzo trasmesso da Massimo Giletti su Rai3 e ripreso dalla stampa, si sente, ad esempio, il senatore del M5S ed ex magistrato Roberto Scarpinato che sembra consigliare il Natoli sulle domande da affrontare davanti alla Commissione Antimafia. Scarpinato va oltre e si lascia sfuggire: “Sai che intenzioni ho? Di seppellire la Colosimo sotto una montagna di documenti” (intento che Natoli stesso riconosce come rischioso). In sostanza, sulla base di quando ondato in onda su Rai3 un magistrato promette a un altro magistrato indagato di aiutarlo a “coprire” l’audizione, e tutto è stato registrato con microspie.
Questo scenario è degno di un film giallo, ma è la realtà di cronaca. Se tali intercettazioni finiscono sui giornali, come è avvenuto, la fiducia nell’imparzialità della magistratura viene scossa. Del resto Natoli è stato ripreso anche insultare i familiari di Borsellino. Frasi inaccettabili che i cittadini hanno potuto conoscere solo perché pubblicate. Analoghe dinamiche coinvolsero l’ex presidente del CSM Luca Palamara, al centro dello scandalo sulle nomine in magistratura. Palamara lamentò anni fa che nell’indagine su di lui “esistono intercettazioni che sono state tenute riservate mentre altre sono state lasciate filtrare”, il che suggerisce una gestione a doppia velocità delle intercettazioni. Sia il Guardasigilli Nordio sia commentatori su Avvenire hanno evidenziato che quel sistema non è mai stato svelato completamente. In sostanza, un meccanismo riservato ai “soliti noti” rimane nascosto, mentre per gli altri, magistrati compresi, scatta la gogna mediatica.
Limiti alla stampa e “giustizia mediatica”
A fronte di questi abusi, la legge ha introdotto forti paletti per la stampa. L’articolo 114 c.p.p., così come riformulato nel 2024, vieta tassativamente ogni pubblicazione delle intercettazioni “se non è prodotto dal giudice” in un provvedimento o adoperato in dibattimento. In pratica non può finire in prima pagina niente che la Procura o la polizia abbiano ordinato di secretare, a meno che il giudice stesso non ne abbia fatto menzione ufficiale, ad esempio nell’ordinanza cautelare. Anzi, la nuova norma esplicita che nemmeno la copia delle intercettazioni può essere fornita a chicchessia fuori dalle parti processuali. Chi viola questo segreto rischia conseguenze penali (art.326 c.p. e 379‑bis c.p.) e perfino disciplinari in quanto giornalista (art.115 c.p.p.).
Tuttavia la realtà pratica è spesso diversa. Studi legali e commentatori denunciano che il “circuito mediatico-giudiziario” continua a funzionare a dispetto del divieto. Ogni volta che nel pool investigativo c’è un indagato “illustre”, gli estratti degli interrogatori e degli atti rimangono un apprezzato menu per i media. Spesso gli avvocati parlano di “giustizia spettacolarizzata” che riversa inchieste sui giornali prima ancora di sentenza. Recentemente è persino capitato che un importante indagato abbia appreso dai giornali di essere sotto inchiesta, anziché dalla Procura, in palese violazione delle norme che garantiscono il diritto di difesa anche in fase preliminare. In altri termini, il problema non sono le intercettazioni di per sé, ma chi ne ricava vantaggi politici o mediatici: “non sono, quindi, le intercettazioni in quanto tali il vero problema ma quello che esse sono, ossia il principale e, in molti casi, l’unico mezzo di prova di cui l’organo investigativo dispone”. Finché la magistratura è convinta che “informazione fa rima con censura dell’accusa”, sarà inevitabile che sullo sfondo ci sia sempre qualcuno pronto a far trapelare quello che più serve alle sue ragioni.
Legge e (dis)credenze
La normativa italiana è molto rigida nel sorvegliare le intercettazioni: richiede autorizzazioni giudiziarie, limiti di durata, 45 giorni, inibisce la pubblicazione indiscriminata e sanziona chi viola i divieti. Ma i fatti dimostrano che ogni regola ha le sue eccezioni pratiche. Quando indaghi è più facile che ci rimettano i cittadini comuni ma quando indagano i colleghi togati, la stessa indagine rischia di diventare “giustizia mediatica”. E gli esempi citati, ossia Natoli, Scarpinato, Palamara e altri, dimostrano che dall’altra parte del tavolo c’è sempre qualcuno con un microfono pronto a registrare. L’unica difesa è forse restare vigili: ricordando che la Costituzione esalta il diritto di cronaca, ma allo stesso tempo tutela la presunzione d’innocenza. In attesa di una vera trasparenza sulle regole della trasparenza, meglio tenere a mente che anche il potere giudiziario può avere la coda di paglia.
Roberto Greco








































