Pubblicate le motivazioni della sentenza che ha condannato Gaetano Scotto all’ergastolo
Una matrice “indubbiamente mafiosa“. Ucciso in quanto ritenuto pericoloso per il suo impegno “nella ricerca di latitanti di mafia“. È questa la causa che si ritiene accertata riportata nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Sergio Gulotta, che ha condannato all’ergastolo il boss dell’Arenella Gaetano Scotto e, contestualmente, assolto dall’accusa di favoreggiamento Francesco Paolo Rizzuto, “perché il fatto non sussiste“. Le motivazioni sono state depositate lo scorso 24 settembre, negli stessi giorni in cui ha preso il via il nuovo processo d’appello con rito abbreviato, dopo che la Cassazione lo aveva annullato con rinvio, nei confronti di Antonino Madonia, capomafia di Resuttana.
Secondo i giudici “vi è prova certa che l’agente Agostino, nei mesi precedenti alla propria morte, fosse effettivamente impegnato in un’attività assai pericolosa, mirata alla individuazione di importanti latitanti mafiosi, al di fuori dal servizio e dai propri compiti istituzionali” derivante dalla diffusione “da parte dei servizi segreti di liste contenenti l’indicazione di ricompense in denaro per la loro cattura”. Come sembra certo, sempre secondo le motivazioni “che tale attività egli svolgeva proprio nel mandamento di Resuttana, con particolare riferimento al vicolo Pipitone ed alle sue immediate vicinanze, regno dei Galatolo e vera e propria base operativa di Antonino Madonia, che di quel mandamento era il vertice assoluto”. Si tratta, senza dubbio, di una sentenza importante, una sentenza che mette alcuni punti fermi sul delitto e che certifica il depistaggio istituzionale compiuto negli anni.
Piste e depistaggi
Tra gli elementi messi in evidenza dalla sentenza, inoltre, c’è la valutazione che quelle indagini sul duplice omicidio, su spinta di Arnaldo La Barbera, al tempo capo della Squadra Mobile palermitana, si concentrarono principalmente sulla pista passionale, senza tener conto di quegli elementi che qualche dopo l’omicidio avrebbero dovuto indicare la vera causale come, ad esempio la relazione di servizio dell’agente Domenico La Monica, in cui si legge delle attività svolte, fuori dalla normale attività di servizio, per la ricerca di noti latitanti quali Totò Riina e Bernardo Provenzano.
E invece lo sforzo investigativo si concentrò, principalmente, sulla c.d. “pista Aversa” Una pista creata sulla base del ritrovamento di alcune annotazioni e bigliettini sui quali era presente un riferimento alla ragazza e ad alcuni dei suoi familiari, che la Corte ritiene “forzata ed irrazionale”. Si tratta di appunti scritti nel 1983, quindi molto prima dell’omicidio. Non si può “ritenere che in buona fede – scrive la Corte – a fronte di tali manoscritti, del loro contenuto intrinseco e dell’epoca di loro formazione, gli investigatori possano aver accreditato, peraltro in via esclusiva, la tesi di un omicidio sostanzialmente passionale, legato a questioni di donne, fondato su un rancore mantenuto per così tanti anni e talmente radicato da giustificare addirittura un duplice omicidio commesso con modalità così eclatanti e efferate, ai danni di un poliziotto e della sua giovane moglie, in un territorio soggetto a capillare controllo mafioso”.
La Corte, inoltre, sgombra il campo sull’attività di ricerca di latitanti indicando che “era in linea con la precipua realtà del Commissariato di San Lorenzo, dove circolavano dei veri e propri prezziari diffusi dai servizi segreti, con l’indicazione della ricompensa che sarebbe spettata a chi avrebbe consentito la cattura di una serie di latitanti di mafia”. “In un siffatto contesto – prosegue la Corte – davvero non si vede per quale ragione l’Agostino dovesse temere di essere sparato per una tale parentela della moglie, se non proprio in conseguenza di una sua attività, per così dire, di indagine che partendo dal Sottile intendesse raggiungere Giovanni Brusca – figlio di Bernardo Brusca, storico capo mandamento di San Giuseppe Jato e grande alleato di Salvatore Riina – o persino lo stesso Riina Salvatore, il quale durante la lunga latitanza era stato spesso presente proprio nel territorio di quel mandamento”. A tal proposito viene anche ricordato “il pedinamento” di cui ha parlato lo stesso Brusca, pedinamento subito ad opera di Agostino a bordo di un vespino, diversi mesi prima del delitto.
Valorizzata quindi dai giudici la causale della “caccia ai latitanti” anche sulla base di alcuni episodi occorsi in quel medesimo anno. “Siffatta causale – a parere della Corte – appare altresì perfettamente sovrapponibile, trovando quindi ulteriore conferma logica, a quella che ha caratterizzato la sequenza di omicidi, iniziata nel mese di maggio 1989 e proseguita sino al mese di marzo del 1990, commessi da Cosa nostra in pregiudizio di altri confidenti delle forze dell’ordine, di altri spioni, ovvero di altri soggetti impegnati in attività di ricerca di latitanti ad un certo punto ritenuti pericolosi per gli interessi della consorteria”. A tal proposito la Corte ricorda gli omicidi di Giacomo Palazzolo, avvenuto il 24 maggio 1989, pochi mesi prima l’uccisione di Agostino oltre a quello, in epoca immediatamente successiva a tale episodio, alla scomparsa e successiva eliminazione di Emanuele Piazza avvenuta nel marzo 1990 e la morte di altro soggetto accusato di essere confidente, Gaetano Genova, avvenuta il 31 marzo 1990.
Ritenuto attendibile il collaboratore Vito Galatolo
Sulla base delle motivazioni della sentenza, quindi, si ritene possibile che, nell’ambito della sua particolare attività investigativa, Nino Agostino sarebbe venuto a conoscenza anche di “innaturali” rapporti tra la cosca Madonia e alcuni rappresentanti delle Forze dell’ordine e dei servizi segreti, ritenendo che ciò risulti “confermato da una serie di univoche e convergenti emergenze probatorie”.
Riconosciuta la piena attendibilità della Corte a Vito Galatolo, collaboratore di giustizia dell’Acquasanta, che ha riferito diversi dettagli sulle figure che “frequentavano” Fondo Pipitone, ovvero il quartiere della sua famiglia, e che ha indicato Agostino come un soggetto che frequentava vicolo Pipitone, ritiene, “al fine di verificare la presenza di eventuali persone”.
Il rapporto tra Nino Agostino e Giovanni Falcone
Per quanto concerne il rapporto tra Agostino e il giudice Falcone, a parere della Corte “non può ritenersi adeguatamente provato un rapporto di diretta collaborazione investigativa” ma vi è “il dato certo che lo stesso magistrato (…) ebbe a prospettare un possibile collegamento tra la propria attività, anche quella riguardante gli interrogatori di Volo Alberto, e l’uccisione dell’agente Agostino”.
Vi era, scrive la Corte, la “piena consapevolezza da parte dello stesso dott. Falcone circa la riconducibilità di tale evento non già ad ambienti di delinquenza comune e comunque legati all’attività, per così dire, istituzionale svolta dall’agente Agostino all’interno del Commissariato di San Lorenzo, bensì la sua riconducibilità a quegli specifici settori criminali che erano oggetto delle proprie indagini. E dunque, un contesto del tutto compatibile con quell’attività di ricerca dei latitanti mafiosi che aveva intrapreso Nino Agostino e che lo aveva avvicinato all’ambiente dei servizi segreti”. A tal proposito la Corte ricorda le parole riferite dal commissario Montalbano su quanto disse Falcone alla camera ardente per Agostino ossia “Montalbano vedi che questa cosa di Agostino è una cosa fatta contro di me e contro di te” a cui si aggiunge la testimonianza del commissario Antinoro che disse di aver incontrato il dottor Falcone presso la Prefettura di Palermo poco tempo dopo l’omicidio, precisando che in tale circostanza il magistrato gli aveva domandato se ci fosse “qualche possibilità” di correlazione tra “la morte del poliziotto con la cosa di cui ci stiamo occupando” riferimendosi all’attività di indagine che in quel periodo essi stavano svolgendo in relazione al collaboratore Volo.
Altro aspetto sottolineato dalla Corte d’Assise è il “solidissimo quadro probatorio”, offerto dalla convergenza nelle dichiarazioni dei pentiti, sui rapporti tra Madonia e Scotto con rappresentanti delle istituzioni, e in particolare dei servizi segreti, “nonché sulla presenza di taluni di essi in vicolo Pipitone (con riferimento specifico a La Barbera Arnaldo, Contrada Bruno e Aiello Giovanni)“.
A proposito, invece, del riconoscimento di Giovanni Aiello compiuto da Vincenzo Agostino in sede di incidente probatorio del febbraio 2016, quando lo indicò come uno dei due soggetti che, mentre il figlio era in viaggio di nozze, erano venuti a cercarlo presso la sua abitazione spacciandosi per colleghi, a Villagrazia di Carini, a bordo di una motocicletta. La Corte pur “senza dubitare della piena genuinità del teste” ha evidenziato le criticità di quello specifico atto per cui “non si consente di pervenire con la necessaria certezza sulla partecipazione di Giovanni Aiello al fatto contestato” aggiungendo però “ciò che tuttavia rileva nel presente processo, e che appare inconfutabilmente provato, è che, sulla base delle molteplici dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dei riscontri sopra esposti, il predetto Aiello Giovanni – soggetto appartenente ai servizi segreti e certamente vicino al dott. Bruno Contrada – era sovente presente in vicolo Pipitone, anche assieme al predetto Contrada, ed ivi si incontrava con Scotto”.
Per questo accanto alla “sicura matrice mafiosa dell’eccidio” la Corte accenna ad una “comune situazione di fatto” riferibile sempre all’attività svolta da Agostino nel territorio di Resuttana, che probabilmente veniva vista come un pericolo.
La posizione di Francesco Paolo Rizzuto
Per quanto riguarda invece la posizione di Francesco Paolo Rizzuto, come già detto in premessa “assolto perché il fatto non sussiste”, il giudice ha evidenziato che anche il pm aveva richiesto l’assoluzione, seppur per diverse ragioni. Secondo la Corte “le emergenze in atti, pur offrendo un quadro complessivo comunque inquietante, che vale a connotare di una certa ambiguità la posizione del Rizzuto, tuttavia non offrono prova certa di una condotta oggettivamente elusiva delle indagini e, tantomeno, di una sua precipua volontà favoreggiatrice”.
Ora si attende di sapere se le parti, dopo la lettura delle motivazioni, ricorreranno in appello.
Accettato il ricorso alla CEDU
Dopo oltre trentacinque anni, la mancanza di un accertamento definitivo della responsabilità penale rappresenta “una grave violazione degli obblighi previsti dall’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo”. Sulla base di queste motivazioni Annunziata, Flora e Salvatore Agostino, i familiari di Antonino Agostino, hanno presentato ricorso alla CEDU, la Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha riconosciuto la rilevanza delle questioni sollevate.
La famiglia dell’agente aveva deciso di adire alla Corte di Strasburgo per “la persistente e ingiustificata inerzia dello Stato italiano nel garantire verità e giustizia sull’omicidio” dei loro cari e ha dichiarato “Siamo fiduciosi che la Cedu ci possa finalmente dare un barlume di giustizia e proseguendo sulle orme dei nostri genitori, continuiamo con la stessa forza e dignità per dare giustizia a nostro fratello Nino e a nostra cognata Ida. Abbiamo sempre riposto la nostra massima fiducia in quei valorosi uomini dello Stato che si sono spesi con il massimo impegno per garantirci quel diritto alla giustizia che, purtroppo, ci è stato negato per troppo tempo“.
Roberto Greco







































