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Mer, 12 Nov 2025
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Palermo 1959: la tragica storia di Giuseppina Savoca, 12enne vittima innocente di mafia

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La sera del 17 settembre 1959 Palermo fu teatro di un feroce agguato in stile “americano”. In via Messina Marine, nella borgata di Romagnolo a pochi passi dal mare, alcuni uomini aprirono il fuoco da un’auto in sosta contro un bersaglio prestabilito. Erano circa le 20:30 quando l’autobus della linea 25 si fermò alla vicina pensilina: tra i passeggeri appena scesi c’era Filippo Drago, 51 anni, commerciante con precedenti penali. Proprio in quel momento, da una Fiat 1100 parcheggiata con il motore acceso, partirono diversi colpi di arma da fuoco diretti a Drago. L’uomo venne colpito e cercò di reagire estraendo la pistola che portava con sé, rispondendo al fuoco mentre tentava la fuga. Ferito gravemente, cercò riparo nella vicina chiesa di San Giovanni Bosco, ma i sicari lo raggiunsero sui gradini, finendolo a colpi di fucile. Drago stramazzò al suolo morente; sarebbe deceduto poco dopo durante il trasporto all’ospedale Villa Sofia.

In quegli attimi convulsi, la sparatoria seminò il panico tra i presenti. L’autista dell’autobus, terrorizzato, richiuse le porte e ripartì di scatto verso la fermata successiva per mettere in salvo i passeggeri. Uno di loro, affacciato al finestrino, osservò la scena con angoscia: era Vincenzo Savoca, che ogni sera tornava a casa con quella corsa. Ad attenderlo in strada c’era la figlia Giuseppina, una bambina di 12 anni che poco prima era corsa alla fermata dicendo alla madre: “Vado a prendere l’amore mio”, impaziente di riabbracciare il papà dopo la giornata di lavoro. La piccola Giuseppina si trovava sul marciapiede a pochi metri da Drago, proprio mentre i killer aprivano il fuoco. Uno dei proiettili vaganti la colpì tragicamente tra lo zigomo sinistro e il collo. Giuseppina cadde a terra gravemente ferita, sotto gli occhi atterriti del padre che assisteva impotente alla scena dal bus in fuga. Soccorsa e trasportata d’urgenza all’ospedale Villa Sofia, la bambina lottò tra la vita e la morte per tre giorni, ma il proiettile le aveva lesionato organi vitali: Giuseppina spirò dopo un’agonia di 72 ore, a causa di complicazioni polmonari, il 20 settembre 1959.

L’agguato di via Messina Marine lasciò sull’asfalto, oltre alla giovanissima Giuseppina, che in quel momento “si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”, come si dirà poi amaramente, anche il corpo senza vita di Filippo Drago e un’altra persona ferita, un nipote di Drago, Giuseppe Gattuso di 22 anni, che riportò lesioni lievi guaribili in pochi giorni. I sicari invece riuscirono a dileguarsi velocemente a bordo dell’auto, facendo perdere le proprie tracce nella notte. Quella che doveva essere un’esecuzione mafiosa mirata, consumata con spietata freddezza, si era trasformata in una tragedia ancora più grande, coinvolgendo un’innocente bambina.

La breve vita di Giuseppina Savoca

Giuseppina Savoca, 12 anni appena compiuti, era una ragazzina come tante: allegra, affettuosa e con tutta la vita davanti. Nata nel 1947 a Palermo, viveva con la famiglia nel quartiere di Romagnolo, alla periferia orientale della città. Suo padre Vincenzo lavorava tutto il giorno, secondo le testimonianze dell’epoca era impiegato come manovale o operaio, e ogni sera Giuseppina aveva l’abitudine di aspettarlo per strada, insieme alla nonna e alle vicine di casa, quando rincasava con l’autobus. Era il loro piccolo rito quotidiano: Giuseppina correva incontro al papà per salutarlo con un abbraccio, colmando così la nostalgia della giornata. La sera del 17 settembre non fece eccezione: dopo cena, la bambina chiese alla madre di poter andare incontro al padre, e uscì nel cortile antistante l’abitazione dei nonni, dove già alcune signore del vicinato si erano radunate per chiacchierare nell’attesa.

Giuseppina frequentava la scuola media e con l’autunno alle porte si apprestava a iniziare la seconda classe. L’estate stava finendo e la città respirava l’aria tiepida di fine stagione, ignara del dramma imminente. In quei giorni spensierati, Giuseppina aiutava la madre nelle piccole commissioni e giocava per strada con i cuginetti e gli amici del quartiere, approfittando delle ultime sere di vacanza. Come la maggior parte dei bambini palermitani dell’epoca, Giuseppina conduceva una vita normale: la scuola al mattino, i giochi in strada il pomeriggio, le faccende di casa e le serate in famiglia. Nulla la legava al mondo di Cosa Nostra né alle faide tra clan che insanguinavano la città. Eppure il destino ha voluto che quella sera la violenza mafiosa incrociasse il suo cammino, spezzando brutalmente una giovane vita innocente. Di lei restano poche fotografie sbiadite in bianco e nero e una bambola, custodita come una reliquia dalla famiglia. Quell’oggetto semplice è tutto ciò che rimane del suo mondo infantile: un mondo fatto di affetti e quotidianità, spazzato via in un attimo dalla ferocia di una pallottola vagante. La vicenda di Giuseppina è emblematica perché dimostra come la violenza mafiosa possa colpire chiunque, travolgendo anche le vite più giovani e innocenti.

Indagini e processo: la giustizia dopo il delitto

L’omicidio di Filippo Drago e la morte della piccola Giuseppina provocarono enorme clamore a Palermo. Sin dalle prime ore, le forze dell’ordine intuirono la matrice mafiosa dell’agguato: la dinamica, un commando armato che spara da un’auto in corsa, rientrava nei tipici regolamenti di conti tra clan. Drago, la vittima designata, risultò immediatamente un personaggio noto alle cronache criminali. Proprietario di una profumeria in via Maqueda, aveva precedenti penali e presunti legami con ambienti loschi. Gli investigatori scoprirono inoltre un possibile movente. Pochi giorni prima, il 14 settembre 1959, c’era stato un attentato a colpi di mitra in via Lancia di Brolo ai danni di un certo Vincenzo Maniscalco, un artigiano ferito gravemente da ignoti. Drago era sospettato di essere il mandante di quell’attacco e la polizia stava per fermarlo proprio in qualità di indiziato. È plausibile quindi che l’agguato di via Messina Marine sia stata una vendetta trasversale: qualcuno aveva deciso di eliminare Drago prima che le indagini sul caso Maniscalco potessero coinvolgerlo, e nel farlo non si era curato dei danni collaterali. Purtroppo, tra questi vi fu la piccola Giuseppina.

Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile di Palermo, si scontrarono subito con l’omertà e le difficoltà di sempre. Sulla scena del crimine regnava il caos. Decine di testimoni sconvolti, ma nessuno in grado, o disposto, a identificare i killer, fuggiti nell’oscurità. Ciononostante, gli inquirenti seguirono le tracce lasciate dalla vittima designata. Filippo Drago apparteneva, secondo le informazioni confidenziali, alla sfera di Cosa Nostra, forse come piccolo affiliato o “uomo d’onore” di basso rango. Le modalità dell’omicidio suggerivano l’opera di professionisti. Armi automatiche, forse fucili a canne mozze o lupara, una perfetta conoscenza delle abitudini di Drago e un piano organizzato, attendere l’arrivo del bus alla fermata. Tutti elementi che indicavano un clan potente dietro l’agguato.

Già nelle settimane seguenti, i sospetti finirono per concentrarsi su due fratelli mafiosi allora emergenti sulla scena palermitana: Angelo e Salvatore La Barbera. Voci di strada e confidenti delle forze dell’ordine facevano il nome dei La Barbera quali possibili mandanti o esecutori dell’attentato. Non era un’accusa inverosimile. Angelo e Salvatore, rispettivamente di 35 e 37 anni, erano noti come killer di professione, responsabili di numerosi atti di sangue in quegli anni. Gestivano loschi affari nell’area di Palermo e stavano accumulando potere criminale a ritmo crescente. Le autorità ipotizzarono che fossero loro, o uomini della loro famiglia, gli autori dell’agguato di Romagnolo.

Tuttavia, raccogliere prove concrete non fu semplice. Nei mesi successivi al delitto, la caccia ai colpevoli si inserì in un contesto di crescente caos mafioso. Tra il 1960 e il 1963 Palermo precipitò infatti in una spirale di violenza fra famiglie mafiose, quella che fu definita “prima guerra di mafia”, e molti protagonisti finirono uccisi o latitanti. I fratelli La Barbera, in particolare, entrarono in rotta di collisione con altre potenti famiglie mafiose e dovettero guardarsi a loro volta da attentati mortali. Salvatore La Barbera venne assassinato in circostanze misteriose nel gennaio 1963, probabilmente eliminato da rivali interni alla mafia. Angelo La Barbera, sopravvissuto a un tentato omicidio, fu infine arrestato durante la grande retata seguita alla strage di Ciaculli del 1963. A quel punto, lo Stato aveva in mano almeno uno dei presunti responsabili della morte di Giuseppina Savoca.

Il procedimento giudiziario per l’agguato di via Messina Marine finì per confluire nel maxi-processo che istruì tutte le faide mafiose di quei tempi. Il processo, per legittima suspicione, venne trasferito a Catanzaro, in Calabria, lontano dalle pressioni ambientali di Palermo. Fu un iter lungo e travagliato: dibattimenti complessi, centinaia di testimoni intimoriti e continui rinvii burocratici. I genitori di Giuseppina Savoca furono chiamati a partecipare come parti civili, nella speranza di vedere finalmente fatta giustizia. Ma le udienze slittarono più volte e l’interminabile attesa fiaccò gli animi. La madre di Giuseppina, già provata da un dolore incolmabile, si ammalò gravemente, e i coniugi Savoca dovettero rinunciare a presenziare alle ultime fasi del processo. Nel dicembre 1968 arrivò la sentenza di primo grado a Catanzaro, che però rappresentò un’amara delusione: “una giustizia mancata”, la definirono in molti. In un clima generale di impunità, la maggior parte degli imputati per la guerra di mafia, compreso Angelo La Barbera, ottenne condanne lievi o venne assolta per insufficienza di prove. Nello specifico, l’omicidio di Giuseppina Savoca rimase impunito o punito solo in modo simbolico, schiacciato dal peso di un maxiprocesso che faticò a stabilire responsabilità individuali. La storia giudiziaria di Giuseppina si concluse così senza un vero colpevole dietro le sbarre, aggiungendo dolore al dolore per la famiglia. Come spesso accadeva all’epoca, la ragion di Stato nel colpire l’intera organizzazione mafiosa finì per offuscare le singole vicende umane.

Reazioni di stampa e istituzioni nell’Italia del 1959

L’assassinio di una bambina innocente in un agguato di mafia suscitò orrore e sdegno nell’opinione pubblica. A Palermo la notizia si diffuse rapidamente e atterrì la cittadinanza. Nei bar e nei mercati non si parlava d’altro: come poteva Cosa Nostra, che millantava codici cavallereschi, macchiarsi di un crimine tanto vile? I quotidiani locali e nazionali diedero ampio risalto alla tragedia. Il giorno successivo, i titoli dei giornali sottolineavano la dinamica da Far West, “Sparatoria all’americana alla periferia di Palermo”, e l’aspetto più agghiacciante, “Nel conflitto coinvolta una bambina di 12 anni”. L’Ora di Palermo, il giornale cittadino noto per le sue battaglie antimafia, dedicò all’episodio articoli indignati: la cronaca puntuale dei fatti si accompagnava a commenti durissimi contro i mafiosi, definiti “belve sanguinarie” capaci di uccidere una bimba. Anche testate nazionali, come L’Unità e La Stampa, ripresero la vicenda evidenziando l’ennesimo episodio di violenza criminale in Sicilia e domandandosi come fosse possibile che lo Stato restasse impotente.

Le istituzioni locali reagirono con dichiarazioni di condanna. Il sindaco di Palermo dell’epoca, il democristiano Cesare Bazan, espresse pubblicamente il cordoglio della città e auspicò che i responsabili fossero presto assicurati alla giustizia. Parole di ferma condanna arrivarono anche dal cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, che, sebbene in passato avesse minimizzato l’esistenza della mafia, di fronte alla morte di Giuseppina definì l’atto “un peccato orrendo che grida vendetta al cospetto di Dio”, almeno così riportarono alcuni giornali, anche se la Chiesa ufficialmente manteneva ancora un certo riserbo sulla questione mafia in quegli anni. Sul fronte politico, l’allora deputato comunista Pio La Torre portò il caso in Parlamento come esempio della brutalità mafiosa che infestava la Sicilia, chiedendo al governo misure straordinarie di contrasto. Va detto che nel 1959 l’attenzione nazionale sul fenomeno mafioso era ancora sporadica: un sondaggio dell’epoca rivelò che un italiano su tre non sapeva neppure cosa fosse la mafia. Tuttavia, episodi come quello di Giuseppina Savoca contribuirono a scuotere le coscienze e a rompere il silenzio.

In città, l’emozione popolare fu profonda. Nei giorni del ricovero di Giuseppina, tanti palermitani seguirono con apprensione gli aggiornamenti dall’ospedale. Quando la notizia della sua morte fu ufficializzata, il 20 settembre, un’ondata di dolore e rabbia attraversò Palermo. Ai funerali della bambina partecipò una folla enorme: migliaia di persone comuni affollarono la chiesa e le strade adiacenti, molte in lacrime e col fiato sospeso. Le cronache raccontano di madri che stringevano i propri figli per mano, come a volerli proteggere simbolicamente da quella violenza inspiegabile. Il piccolo feretro bianco di Giuseppina divenne il doloroso simbolo dell’innocenza violata. In prima fila c’erano i genitori distrutti dal pianto e i parenti, sorretti dall’affetto sincero della gente. Per la prima volta, forse, la cittadinanza mostrò apertamente indignazione contro la mafia: un sentimento ancora confuso e sotterraneo, che non si tradusse subito in protesta organizzata, ma che iniziò a serpeggiare nel tessuto sociale.

Alcuni giornalisti sottolinearono questo aspetto, notando come “l’episodio tragico della morte di una bimba innocente destò un moto di indignazione popolare” in una città fino ad allora rassegnata e silente. Nell’immediato, quel moto di sdegno non produsse effetti tangibili, i mafiosi continuarono a sparare e a fare affari come prima, ma nel medio-lungo periodo contribuì ad isolare la delinquenza mafiosa dal consenso tacito di cui aveva goduto a lungo. In altre parole, la morte di Giuseppina e le altre efferatezze di quegli anni iniziarono a incrinare l’omertà collettiva: sempre più cittadini compresero che la mafia non era un’entità “rispettabile” o lontana, ma un cancro che poteva uccidere chiunque, persino una bambina che giocava vicino casa. Questo lento cambiamento di coscienza sarebbe maturato negli anni ’60 e ’70, fino a sfociare nei movimenti antimafia espliciti dei decenni successivi. Ma già nel 1959 Palermo visse un’angoscia lunga tre giorni – tanti quanti ne trascorsero tra il ferimento di Giuseppina e la sua morte – e da quel dolore cominciò a germogliare una reazione morale.

Il ricordo di Giuseppina: dalla cronaca alla memoria

Nonostante all’epoca la vicenda scivolasse ben presto nelle pagine interne dei giornali, il nome di Giuseppina Savoca non è stato dimenticato. Col passare dei decenni, soprattutto a partire dagli anni ’80 e ’90, la società civile siciliana ha iniziato a recuperare la memoria delle vittime innocenti di mafia, costruendo un ponte ideale tra quelle tragedie e l’impegno per la legalità. Giuseppina è oggi riconosciuta in tutti gli elenchi ufficiali di queste vittime: il suo nome viene letto ogni anno il 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, istituita dall’associazione Libera. Compare inoltre nelle liste stilate dal Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, una delle prime organizzazioni antimafia, che sin dal 1983 ne onora la memoria nelle sue pubblicazioni. Iniziative locali a Palermo hanno spesso ricordato Giuseppina durante manifestazioni e anniversari.

Un contributo significativo al mantenimento del ricordo è venuto dal mondo della scuola. Nell’anno scolastico 2004/2005 gli studenti del liceo scientifico E. Basile di Palermo hanno realizzato un corto documentario intitolato “Una voce dal silenzio”, incentrato proprio sulla storia di Giuseppina Savoca. Guidati dai docenti e coinvolgendo i familiari della bambina, i ragazzi hanno ricostruito la vicenda con sensibilità e rigore storico, traendo da essa spunti di riflessione sulla legalità. Il video, presentato in concorsi studenteschi, ha ottenuto riconoscimenti nazionali per la profondità e la qualità con cui ha saputo raccontare quella storia lontana. Attraverso le immagini e le voci narranti, “Una voce dal silenzio” ha ridato vita a Giuseppina, sottraendola all’oblio e facendone una piccola grande testimone della brutalità mafiosa. L’iniziativa dei giovani del Basile, premiata al Campus di Montecatini 2005, è la dimostrazione di come le nuove generazioni possano farsi carico della memoria, trasformandola in impegno civile concreto.

Anche la letteratura e la ricerca storica hanno riportato l’attenzione sul caso Savoca. Vari saggi sulle vittime di mafia citano l’omicidio della dodicenne di Palermo come un episodio emblematico. Ad esempio, la studiosa americana Robin Pickering-Iazzi nel libro Dead Silent: Life Stories of Girls and Women Killed by the Italian Mafias del 2019 inserisce Giuseppina tra le figure di bambine uccise dalla criminalità organizzata, sottolineando come all’epoca la sua morte “provocò l’indignazione di migliaia di cittadini palermitani” e rappresentò un punto di svolta nell’opinione pubblica. Il Centro Impastato stesso, nei suoi rapporti, cita Giuseppina Savoca accanto ad altre giovani vittime per evidenziare la falsità del preteso “codice d’onore” mafioso. Inoltre, esistono pagine web e blog che raccolgono la sua storia, restituendole dignità e facendola conoscere a un pubblico più vasto. Iniziative commemorative locali comprendono intitolazioni simboliche: sebbene a Giuseppina non sia stata dedicata ufficialmente alcuna strada o scuola, il suo nome compare in targhe collettive e monumenti che Palermo e altri comuni siciliani hanno eretto in onore delle vittime innocenti di mafia.

Nel ricordare Giuseppina, spesso si dà voce anche ai suoi familiari superstiti. Oggi, a oltre sessant’anni di distanza, i parenti, nipoti e pronipoti, conservano la memoria di quella zia mai conosciuta ma sempre presente nei racconti di famiglia. In un’intervista recente, un nipote ha mostrato la famosa bambola appartenuta a Giuseppina, raccontando come la madre di lei, nonna del nipot, la custodisse gelosamente fino alla fine dei suoi giorni. La famiglia Savoca non ottenne mai alcun risarcimento dallo Stato per la perdita subita: la legge che riconosce un indennizzo alle vittime di mafia, infatti, si applica solo ai reati avvenuti dopo il 1º gennaio 1961, escludendo i casi precedenti. Una beffa nella beffa, che ha aggiunto ulteriore amarezza ai genitori di Giuseppina i quali, affranti, vissero gli ultimi anni nel ricordo della figlia e si spensero senza aver visto una vera giustizia. Tuttavia, al di là degli atti formali, il ricordo di Giuseppina vive ogni volta che la sua storia viene raccontata e condivisa. Oggi quella bambina dagli occhi vispi è diventata uno dei simboli della memoria collettiva: una delle tante giovani vite “invisibili agli occhi della società” che però, a dispetto dell’oblio, continuano a parlarci dal passato.

L’impatto sulla coscienza collettiva

La tragica vicenda di Giuseppina Savoca lascia in eredità una serie di riflessioni importanti nella storia della mafia e dell’antimafia. Innanzitutto, smonta il mito di una Cosa Nostra “dalle regole cavalleresche”. Per decenni i boss hanno alimentato la leggenda di un codice d’onore secondo cui non si uccidono innocenti, donne e bambini. Eppure, come osservò amaramente qualcuno, “non esistono tempi e luoghi sbagliati per gli innocenti, perché in realtà a trovarsi nel posto sbagliato sono sempre gli assassini”. Giuseppina si trovava semplicemente davanti casa della nonna. I killer, invece, erano lì per portare morte. Il suo omicidio “per errore” è la prova lampante che la mafia, quando deve colpire, non guarda in faccia a nessuno. Questo fatto colpì duramente la coscienza collettiva siciliana: molti iniziarono a rendersi conto che la mafia non era affatto “rispettosa” dei deboli, ma anzi li calpestava senza scrupoli. Nella storia di Cosa Nostra, purtroppo, la lista di vittime minorenni si sarebbe allungata negli anni successivi giungendo a 125 di cui 109 riconosciuti, basti pensare a Claudio Domino, 11 anni ucciso nel 1986, o al piccolo Giuseppe Di Matteo, barbaramente assassinato a 15 anni nel 1996, ma Giuseppina Savoca rimane una delle prime bambine ad aver perso la vita a causa della violenza mafiosa nel dopoguerra, e per questo la sua memoria è così significativa.

In secondo luogo, il caso Savoca evidenzia il cambiamento graduale dell’atteggiamento sociale verso la mafia. Se fino agli anni ’50 la mafia prosperava anche grazie all’indifferenza o alla rassegnazione della popolazione, la morte di Giuseppina contribuì, insieme ad altri fatti eclatanti, a rompere questa cappa di silenzio. Come riportano gli storici, “la città era attonita rispetto a quegli eventi criminosi e non riusciva a venirne fuori”, ma quel delitto suscitò un’indignazione popolare che lentamente erose il tacito consenso attorno a Cosa Nostra. In retrospettiva, possiamo vedere nella commozione suscitata dalla morte di Giuseppina un seme dell’antimafia sociale: la presa di coscienza che la mafia non è un affare “tra loro”, ma una minaccia per l’intera comunità. Certo, negli anni immediatamente successivi Palermo visse ancora molto sangue, la prima guerra di mafia, poi una seconda guerra negli anni ’80 e le stragi eccellenti dei primi ’90, ma il cammino culturale era iniziato. Oggi, guardando indietro, tanti sottolineano come l’orrore per l’uccisione di una bambina sia rimasto impresso nella memoria cittadina, un monito a non abbassare mai la guardia.

Infine, la storia di Giuseppina Savoca ci richiama all’importanza della memoria attiva. Per lungo tempo la sua vicenda era caduta nell’oblio, complice anche la mancanza di giustizia e il susseguirsi di altri fatti di cronaca. Ma riscoprirla significa ridare voce a chi non può più parlare e rendere quella voce un messaggio di cambiamento. Le nuove generazioni di siciliani, che non hanno vissuto quegli anni bui, attraverso il racconto di storie come questa possono comprendere la vera natura della mafia – un sistema criminale che ha causato sofferenze immani – e trovare motivazioni per costruire un futuro diverso. Giuseppina oggi vive nel ricordo di chi la nomina e di chi ne fa un simbolo: simbolo dell’innocenza strappata via e al contempo della speranza che simili ingiustizie non si ripetano più. Come ha scritto un commentatore, riferendosi ai bambini vittime della mafia: “Storie di fantasmi che infestano le strade del paese, costretti a vagare in eterno senza mai trovare una pace, una giustizia”. Far conoscere queste storie significa, in un certo senso, offrire a quei fantasmi un po’ di pace e giustizia postuma, trasformando il loro sacrificio in una lezione collettiva.

Giuseppina Savoca, con la sua breve vita e la sua tragica fine, ci insegna dunque almeno due cose: che la mafia va combattuta sempre, perché sa essere vile e crudele oltre ogni immaginazione; e che la memoria delle vittime innocenti è un dovere civile, per dare un senso al loro sacrificio e rendere la società più consapevole. Nel nome di Giuseppina, bambina di 12 anni che “avrebbe dovuto iniziare la seconda media” ma che invece fu uccisa da una pallottola mafiosa, Palermo e l’Italia hanno trovato un motivo in più per dire basta alla prepotenza criminale. La sua storia, raccontata oggi con rispetto e partecipazione, è un monito e insieme un impegno: quello di non dimenticare mai e di continuare a lottare perché simili episodi non abbiano più luogo. Giuseppina era solo una bambina, ma il suo ricordo è diventato quello di una piccola grande martire civile, la cui eredità morale sopravvive nella coscienza di tutti noi.

Roberto Greco

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