Il 16 ottobre di sessantasei anni fa moriva George Catlett Marshall, generale e statista statunitense insignito del Nobel per la Pace nel 1953. Oggi il suo nome è indissolubilmente legato al piano di aiuti che contribuì in modo decisivo a risollevare l’Europa dalle macerie della Seconda guerra mondiale. In Italia, in particolare, il cosiddetto Piano Marshall fu determinante per la ricostruzione post-bellica, ma non privo di condizioni politiche ed economiche che avrebbero segnato la sovranità e le scelte del Paese negli anni successivi. Questo anniversario è l’occasione per ripercorrere finalità, risultati e retroscena di quell’intervento americano, proprio nel giorno in cui se ne ricorda l’artefice.
1947: l’Europa in ginocchio e la visione di Marshall
Alla fine della guerra l’Europa era affamata e al collasso: in molte zone si sopravviveva con meno di 1500 calorie al giorno e regnavano miseria e disordini. Gli Stati Uniti, usciti dal conflitto forti e indenni sul proprio territorio, comprendevano che “la disperazione porta a disordini, ribellioni e rivoluzioni”, terreno fertile per l’avanzata dei movimenti comunisti. Già nel marzo 1947 il presidente Truman aveva lanciato la dottrina del “containment”, impegnando gli USA a sostenere i popoli liberi contro l’espansionismo sovietico. Fu in questo contesto che Marshall, nominato Segretario di Stato, delineò la sua strategia: un piano organico di aiuti economici per far ripartire il Vecchio Continente, annunciato in un discorso passato alla storia. Il 5 giugno 1947 ad Harvard, Marshall dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero fatto “tutto quanto in loro potere per contribuire al ritorno di condizioni economiche sane e normali nel mondo, senza le quali non possono esservi stabilità politica né pace sicura”. Puntalizzò, però, che la politica americana “non è diretta contro alcun paese o dottrina, bensì contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos”. Allo stesso tempo, parlando in termini diplomatici, avvertì che qualsiasi governo avesse ostacolato la ricostruzione di altri Paesi non avrebbe ricevuto aiuti. In altre parole, l’offerta era aperta a tutti i Paesi europei, ma implicava la cooperazione reciproca e, di fatto, la scelta di campo nel nascente scontro Est-Ovest.
La scelta dell’Italia: aiuti in cambio di allineamento occidentale
Nell’estate 1947, sedici nazioni dell’Europa libera, Italia compresa, aderirono alla proposta Marshall, mentre l’URSS rifiutò e impedì ai Paesi satelliti di partecipare. In Italia la situazione era particolarmente delicata: il Paese usciva distrutto dalla guerra civile e dalla povertà, con un tessuto economico a pezzi e forti tensioni sociali. Inoltre, il Partito Comunista Italiano era il più grande d’Occidente e aveva partecipato al governo di unità nazionale fino a maggio 1947. Proprio in vista degli aiuti americani, il premier Alcide De Gasperi estromise comunisti e socialisti dal governo, allineando l’Italia al blocco occidentale. Washington del resto fu esplicita nel legare gli aiuti alla collocazione geopolitica: lo stesso Marshall, in un discorso alla vigilia delle cruciali elezioni italiane del 18 aprile 1948, avvertì che i finanziamenti agli italiani si sarebbero interrotti in caso di vittoria delle sinistre. Il messaggio fu recepito chiaramente. In quella campagna elettorale la Chiesa e i comitati filogovernativi agitarono lo spettro dello “stomaco vuoto” qualora il Fronte Popolare comunista fosse salito al potere, mentre nei fatti i primi camion carichi di aiuti americani arrivavano già in piazza Duomo a Milano accolti dall’arcivescovo Schuster come una provvidenziale “grazia degli americani”. L’Italia, quindi, scelse, o fu costretta a scegliere, l’America. Nell’aprile 1948 il voto premiò nettamente i partiti filo-occidentali, spianando la strada all’attuazione del Piano Marshall nel nostro Paese.
Pioggia di dollari sul Belpaese: la ricostruzione e il “miracolo” economico
Il Piano Marshall, chiamato ufficialmente European Recovery Program (ERP), entrò in vigore nel 1948 con durata prevista di quattro anni. Complessivamente gli Stati Uniti stanziarono aiuti per circa 13 miliardi di dollari, dell’epoca, a favore di 16 Paesi europei. All’Italia, inclusa la zona di Trieste, fu assegnata una quota di circa 1,5 miliardi di dollari: poco più dell’11% del totale, quarta beneficiaria dopo Regno Unito, Francia e Germania Ovest. Di questa somma, il 94% erano sovvenzioni a fondo perduto e solo il restante prestiti agevolati. Un sollievo considerando l’enorme debito pregresso del Paese dopo due guerre mondiali. Gli aiuti arrivarono sotto forma di beni e crediti per acquistare beni quali grano, carbone, petrolio, materie prime, macchinari, veicoli, fertilizzanti e perfino tabacco e cotone dagli USA. Una Missione americana, la Economic Cooperation Administration, a Roma vagliava le richieste e gestiva l’erogazione dei fondi in lire. In totale, l’Italia ricevette merci per oltre un miliardo di dollari e prestiti per circa 260 milioni destinati alla ricostruzione industriale.
Gli effetti furono immediati. Con le materie prime e i macchinari americani, le fabbriche italiane ripresero a produrre. Tra il 1948 e il 1951 la produzione industriale in Italia e negli altri paesi ERP aumentò vertiginosamente, superando già nel 1951 i livelli pre-bellici del 1938. In appena due anni, si ottenne un miglioramento che inizialmente si pensava di poter raggiungere solo in quindici. Il sostegno Marshall fece da volano a quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto il “miracolo economico” italiano degli anni ’50-’60. Nel frattempo, grazie anche alla regia americana, le nazioni europee imparavano a collaborare: nel 1948 nacque l’OECE, l’Organizzazione europea di cooperazione economica, per coordinare le politiche economiche e la distribuzione degli aiuti, gettando le basi delle future istituzioni comunitarie.
In termini sociali, il Piano Marshall aiutò a rimettere in sesto un paese stremato. Si finanziarono progetti di ricostruzione ovunque: dalle infrastrutture strategiche, quali ferrovie, porti, acquedotti e reti di telecomunicazione, sino alle opere di pubblica utilità nei piccoli centri. Un documento dell’epoca elencava migliaia di cantieri aperti in Italia grazie ai fondi ERP: dalla ricostruzione di scuole, mercati e tipografie alla riparazione di fognature e illuminazione pubblica. Particolare impulso venne dato all’edilizia abitativa anche perchè “notevoli stanziamenti” andarono al Piano Fanfani per la costruzione di case popolari (75.000 vani per operai) e per la riparazione di circa 450.000 alloggi distrutti dalla guerra. Altri finanziamenti, fino al 75% a tasso agevolato, supportarono la costruzione di 355.000 vani per la classe media. Anche l’industria fu rimessa in moto. Oltre 1.200 imprese italiane ottennero prestiti in dollari tramite organismi come l’IMI, l’Istituto Mobiliare, ed enti appositi, con l’impegno di impiegare quei fondi per acquistare attrezzature indispensabili, principalmente dagli Stati Uniti. La FIAT fu tra le aziende che ne beneficiarono maggiormente, ottenendo quasi 27 milioni di dollari per ammodernare gli impianti produttivi. Non tutti tuttavia ebbero la stessa fetta di torta. Gran parte dei crediti industriali si concentrò nel Nord e Centro Italia, mentre al Mezzogiorno arrivò solo una piccola quota, appena un decimo rispetto alle regioni settentrionali. Questo squilibrio geografico attenuò solo in parte la profonda frattura economica tra Nord e Sud, destinata a persistere nel dopoguerra.
Costi nascosti, condizioni e condizionamenti del Piano Marshall
Il Piano Marshall non fu un regalo disinteressato. “Il pragmatismo americano non permetteva una generosità senza contropartite”, osservano oggi gli storici. In effetti, al di là della retorica ufficiale, l’aiuto USA perseguiva anche obiettivi precisi: rilanciare un grande mercato per i propri prodotti e scongiurare l’avanzata comunista in Europa occidentale. Fin dall’inizio, Washington impose rigide condizioni ai paesi beneficiari. Anzitutto bisognava presentare piani di spesa dettagliati e rispettarli scrupolosamente. Inoltre gli aiuti andavano utilizzati per modernizzare le economie in senso liberale: gli accordi richiedevano di combattere l’inflazione, pareggiare i bilanci statali, ridurre il protezionismo e i sussidi pubblici, creare sistemi di cambi stabili e unificare i mercati con unioni doganali e libera circolazione. In sostanza, all’Italia e agli altri paesi fu chiesto di adottare politiche economiche di impronta americana, abbandonando derive stataliste e pianificatrici. Non a caso, l’articolo 7 della Convenzione OECE impegnava ogni Stato a “stabilizzare la propria moneta e riequilibrare le finanze”, principio analogo a quelli che decenni dopo sarebbero diventati vincoli comunitari. L’Italia recepì tali impegni con una legge ad hoc (legge n. 1108 del 4/8/1948): essa obbligava il governo a fare “del proprio meglio” per stabilizzare la lira, mantenere un cambio fisso, pareggiare il bilancio il prima possibile e ridurre il debito pubblico. In un paese tradizionalmente incline alla spesa in deficit, si trattava di una cesura significativa nella sovranità di bilancio nazionale.
Sul piano dei controlli, gli Stati Uniti pretesero totale trasparenza. Ogni paese firmò con Washington un accordo bilaterale che ampliava le condizioni generali, calibrandole alla situazione locale. Per l’Italia, considerata, insieme alla Grecia, un paese “a rischio” instabilità, le clausole furono particolarmente stringenti. Una Missione americana della ECA vigilava permanentemente sull’utilizzo dei fondi: i funzionari USA potevano ispezionare aziende, visionare contabilità, richiedere informazioni riservate e persino “dare consigli” ai ministeri. Se qualche importazione risultava non conforme ai piani concordati, l’Italia doveva rimborsarla. Inoltre almeno il 50% delle merci acquistate con aiuti ERP doveva viaggiare su navi battenti bandiera americana, garantendo lavoro alla flotta USA. Non ultimo, gli Stati Uniti posero attenzione alla comunicazione pubblica: gli accordi prevedevano l’obbligo di informare costantemente i cittadini sui benefici del Piano Marshall. In Italia, tale requisito diede vita a una massiccia campagna propagandistica filo-americana. L’ECA finanziò cinegiornali, documentari e manifesti per conquistare l’opinione pubblica: furono prodotti circa 300 filmati divulgativi dai titoli accattivanti come Le straordinarie avventure di un litro di latte o Rinascita agricola. Nelle piazze, intanto, il PCI e la CGIL bollavano l’ERP come un progetto di “colonizzazione americana” e inscenavano proteste contro quella che giudicavano una perdita di indipendenza nazionale. Da Mosca, la propaganda sovietica descriveva il Piano Marshall come un attacco all’autonomia europea e una forma subdola di imperialismo USAi. E persino oltreoceano, una corrente isolazionista del Congresso criticò l’iniziativa come un costo eccessivo per aiutare stranieri. Di fatto, però, nessuno dei governi beneficiari osò sottrarsi alle condizioni: la posta in gioco, la ricostruzione e la stabilità, era troppo alta, e rinunciare agli aiuti impensabile.
Un bilancio storico tra benefici e compromessi
A oltre settant’anni di distanza, il Piano Marshall resta al centro di un dibattito storiografico. Da un lato c’è chi lo celebra come un atto di generosità senza precedenti, il “più altruistico della storia” secondo le parole di Winston Churchill. Indubbiamente l’ERP reale, al di là del mito, centrò gli obiettivi dichiarati: favorì la ripresa produttiva, migliorò le condizioni di vita di milioni di europei e consolidò in Italia una democrazia pluralista, evitando derive autoritarie nel periodo più critico della Guerra Fredda. Per l’Italia, in particolare, quei dollari furono il carburante con cui accendere il motore del “miracolo economico”. L’assistenza americana colmò il vuoto di capitali, calmierò l’emergenza alimentare, modernizzò l’apparato industriale e diede impulso alle riforme, dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno alle politiche agricole e abitative, che trasformarono il Paese negli anni ’50. D’altro canto, gli “assi nella manica” americani, condizioni e controlli, significarono per l’Italia costi meno visibili ma reali. La sovranità economica fu limitata da vincoli di bilancio e scelte di libero mercato imposti dall’esterno, preludio di quelle cessioni di sovranità che caratterizzeranno l’integrazione europea. La sovranità politica fu anch’essa condizionata. L’Italia entrò stabilmente nell’orbita statunitense, aderendo nel 1949 alla NATO e mantenendo per decenni un assetto interno in cui una parte dell’elettorato, quello comunista, restò escluso dal governo nazionale, anche per tacito veto geopolitico legato alla Guerra Fredda. Gli Stati Uniti ottennero un duplice risultato. Da un lato un’Europa occidentale risollevata e aperta ai commerci, una “corsia preferenziale” per le merci americane, come notato a posteriori, e dall’altro un saldo ancoraggio strategico dell’Italia e degli altri Paesi nella metà libera del mondo. L’operazione fu dunque un classico esempio di win-win: vantaggiosa per l’America e per l’Europa al tempo stesso. Secondo molti storici, furono proprio alcuni dei cambiamenti strutturali indotti dal Piano, la disciplina finanziaria, la liberalizzazione degli scambi, la cooperazione economica sovranazionale, a costituire il lascito più duraturo e profondo, ben più dell’aiuto monetario in sé. In quel quadro di rinnovamento, l’ampia pubblicità data agli aiuti contribuì a diffondere in Italia modelli culturali e ideali made in USA, alimentando il mito positivo degli “americani” venuti a portarci benessere. Un mito che, a distanza di tanti anni, sopravvive ancora nelle memorie familiari e collettive: basti pensare ai nonni che, ricordando i giorni della fame, raccontano con gratitudine del latte in polvere, del cioccolato e delle “uova del Piano Marshall” distribuite ai bambini nell’immediato dopoguerra.
Il Piano Marshall verso l’Italia fu insieme generoso e interessato, provvidenziale e interventista. George Marshall, dal canto suo, ne era ben consapevole. Quando gli fu conferito il Nobel, nel 1953, anziché esaltare unilateralmente l’aiuto offerto dagli USA preferì sottolineare un concetto universale. “Dobbiamo presentare la democrazia come una forza che contiene in sé i semi del progresso della razza umana”, disse l’ex generale. Forse fu anche grazie a quei semi, gettati col Piano Marshall durante la stagione più difficile, che l’Italia e l’Europa occidentale poterono rinascere libere, prosperare nei decenni successivi e gustare di nuovo, come la nonna della nostra storia, il sapore dolce di un futuro di speranza. Ma a quale prezzo?
Roberto Greco








































