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Mer, 12 Nov 2025
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La tragedia dei Rinaldini e le sette religiose nella Sicilia del Seicento

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Il recente orrore della strage di Altavilla Milicia ha riportato l’attenzione sul fenomeno, tutt’altro che nuovo, delle sette religiose in Sicilia. La storia dell’isola conosce però precedenti ben più antichi, anche se altrettanto inquietanti. Tra questi, il caso della famiglia Rinaldini, avvenuto nel 1633, rappresenta una delle pagine più oscure del fanatismo religioso seicentesco. Una vicenda che mostra come la fede, distorta e manipolata, possa trasformarsi in follia omicida.

Palermo nel Seicento: tra incenso e inquisizione

La Palermo del XVII secolo viveva immersa in un clima di profondo fervore religioso. Sotto il dominio della corona spagnola, il potere della chiesa cattolica permeava ogni aspetto della vita pubblica e privata. Processioni, donazioni e riti devozionali scandivano la quotidianità di una città in cui la fede era al tempo stesso strumento di salvezza e controllo. In questo contesto prosperava la famiglia Rinaldini, esempio di virtù cristiana e rispettabilità borghese.

Benedetto Rinaldini era un ricco mercante di tessuti e la moglie Caterina era considerata una donna devota e caritatevole. Vivevano con i loro quattro figli, in una villa sulle colline palermitane. Lì, nella cappella privata edificata nel 1628, il confessore di famiglia, padre Alessandro Torretti, celebrava la messa domenicale. Tutto sembrava incarnare l’ideale della famiglia cattolica modello. Ma dietro quella facciata di pietà si nascondeva un abisso di superstizione, follia e morte.

La morte di Isabella: il sacrilegio dell’eucaristia

Il 15 marzo 1633, durante la consueta messa privata, avvenne l’evento che avrebbe scosso Palermo. Dopo aver ricevuto la comunione, infatti, Isabella, la figlia minore di soli 17 anni, cadde a terra in preda a violente convulsioni e morì in pochi minuti. Il medico di famiglia, Salvatore Messina, arrivato mezz’ora dopo, constatò i segni inequivocabili di un avvelenamento. Ma come poteva accadere tutto ciò durante un rito sacro?

Padre Torretti, sconvolto, iniziò una personale indagine. Il vino utilizzato per l’eucaristia proveniva dalle vigne dei Rinaldini e veniva preparato da Caterina, che diceva di custodire un’antica “ricetta di famiglia”. Padre Torretti ricordò, inoltre, che la donna, nelle confessioni precedenti, aveva iniziato a parlare di “peccati ancestrali” e di una maledizione che gravava sulla sua stirpe. Infine, la figlia Elena confidò al sacerdote che la madre pregava di notte in una lingua sconosciuta, ossessionata dall’idea della purificazione attraverso il sacrificio.

Nel frattempo, proseguivano anche gli esami del dottor Messina che confermarono la presenza di una sostanza velenosa  nel corpo di Isabella, mentre sui suoi abiti comparvero tracce di una polvere biancastra. Interrogato sulla natura di quella sostanza Benedetto disse al medico che la moglie portava sempre con sé un piccolo sacchetto di tessuto contenente “reliquie sacre” e che probabilmente quella polvere proveniva da lì. Quell’oggetto, apparentemente innocuo, si rivelò la chiave dell’enigma.

La setta delle devote e la manipolazione di Agata Sciortino

Le indagini congiunte di padre Torretta e del dottor Messina portarono alla macabra scoperta, cioè che Caterina frequentava segretamente un gruppo di donne dell’Albergheria guidate da una certa Agata Sciortino, una vedova settantenne che si proclamava in contatto diretto con i santi. La Sciortino predicava la necessità di purificare le famiglie dai peccati dei loro antenati attraverso il sacrificio umano. Per le sue seguaci, l’omicidio diventava un atto di fede, una via mistica verso la salvezza.

Caterina, fragile e suggestionabile, divenne la vittima perfetta di questa manipolazione. Convinta che la sua famiglia fosse “eletta, ma maledetta”, iniziò a credere che solo la morte dei suoi cari potesse salvarne l’anima. L’avvelenamento di Isabella fu il primo passo del suo delirio purificatore.

La scoperta di padre Torretti

Consapevoli del pericolo, padre Torretti e il dottor Messina decisero di sorvegliare la donna. La domenica del 12 aprile 1633, durante una nuova messa nella cappella, il sacerdote sorprese Caterina mentre aggiungeva furtivamente della polvere bianca al vino sacro. Quando il prete la fermò, la donna crollò in una confessione agghiacciante.

Davanti al marito e ai figli, Caterina Rinaldini dichiarò che l’uccisione di Isabella era un atto di “purificazione divina” e che avrebbe presto sacrificato anche Marco, che era perfetto per questo fine perché destinato alla vita ecclesiastica. Ogni membro della famiglia, secondo lei, doveva morire per redimere la stirpe dai peccati commessi dai loro antenati.

La confessione: la lunga scia di sangue

Sotto la pressione del marito e del sacerdote, Caterina confessò altri delitti. Aveva ucciso il figlio neonato Lorenzo, la suocera Francesca, il cognato Salvatore e persino la figlia di una vicina, colpevole solo di portare lo stesso nome di Isabella. Agata, infatti, le aveva detto che due bambine con lo stesso nome sulla stessa strada erano il segno della presenza del demonio. Avvelenamenti, polveri e pozioni letali componevano la macabra liturgia della donna, che diceva di usare arsenico mescolato a ossa umane.

Guidata da Agata, Caterina si recava di notte nei cimiteri per procurarsi i resti dei defunti, convinta che “le ossa degli empi” potessero diventare strumenti di salvezza. Ogni morte, spiegò, lavava via una parte della maledizione familiare. Isabella era stata la “più pura”, quindi il suo sacrificio doveva aprire le porte del paradiso a tutti i Rinaldini.

La morte della madre assassina

Al termine della sua confessione, Caterina affermò che, dopo aver completato la purificazione, sarebbe stata bruciata viva come gli antenati eretici, in modo che le fiamme purificassero anche la sua anima e completassero il ciclo. Come le aveva promesso Agata Sciortino.  Pochi istanti dopo, estrasse una fiala nascosta nella manica e bevve un liquido trasparente. Morì tra convulsioni, serena come chi crede di compiere un destino inevitabile. Così si chiuse la follia mistica di una madre che aveva trasformato l’amore in strumento di distruzione.

L’Inquisizione e la scoperta della rete settaria

La morte di Caterina portò alla luce una rete di fanatismo diffusa in tutta la Sicilia. L’Inquisizione spagnola aprì un’inchiesta che condusse all’arresto di Agata Sciortino e delle sue seguaci. Durante gli interrogatori, la donna ammise di aver fondato una confraternita segreta ispirata a testi eretici medievali, che predicavano la purificazione del sangue attraverso il sacrificio.

Le indagini svelarono che in almeno quindici famiglie siciliane – tra Palermo, Catania, Messina e Siracusa -, si erano infiltrate donne aderenti alla setta, responsabili di oltre cinquanta omicidi travestiti da morti naturali. Si trattava di una forma di fanatismo religioso femminile senza precedenti, che univa superstizione, misticismo e manipolazione psicologica.

Le conseguenze e la memoria della tragedia

Il caso ebbe un’enorme risonanza. Benedetto Rinaldini, distrutto dal dolore, si ritirò a vita privata e morì pochi anni dopo. Il dottor Messina scrisse un resoconto medico dettagliato sugli avvelenamenti, considerato oggi uno dei primi studi sistematici sull’uso dei veleni in Italia. Padre Torretti, invece, lasciò nei suoi diari una riflessione che conserva una tragica attualità: “Ho visto cosa accade quando la fede viene distorta dall’orgoglio e dalla paura. Caterina Rinaldini non era malvagia per natura, ma vittima di chi ha trasformato la sua devozione in uno strumento di morte”. 

L’episodio dei Rinaldini rimane una delle più inquietanti testimonianze della Sicilia barocca, segnata dall’ombra dell’Inquisizione e dal potere delle superstizioni. È una storia che parla di fanatismo, ma anche di vulnerabilità umana. Oggi, la villa dei Rinaldini, abbandonata sulle colline di Palermo, è ancora avvolta da un’aura di mistero. Alcuni la definiscono “la casa dei puri”, altri “la dimora maledetta”. Ma al di là delle leggende, resta il monito di una tragedia che attraversa i secoli sulla linea sottile che separa la fede dalla follia, la devozione dall’orrore.

Sonia Sabatino 

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