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Ven, 07 Nov 2025
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Viaggio allo ZEN di Palermo: dal sogno urbanistico al degrado e al riscatto possibile

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In una periferia a nord della città, due grandi insediamenti di edilizia popolare, noti come ZEN 1 e ZEN 2, ufficialmente quartiere San Filippo Neri, rappresentano oggi uno dei simboli più discussi del degrado urbano in Italia. Nati negli anni ’60 con ambizioni utopistiche di rigenerazione urbanistica, questi “quartieri satellite” hanno attraversato decenni di abbandono istituzionale, marginalizzazione sociale, infiltrazioni mafiose e stigma mediatico. Eppure, tra case fatiscenti e strade dissestate, resistono anche segnali di speranza. Si tratta di associazioni di quartiere attive, progetti di riqualificazione in cantiere e residenti che rivendicano normalità e diritti.

Le origini utopistiche dello ZEN: il progetto e le sue ambizioni

La storia dello ZEN (acronimo di Zona Espansione Nord) affonda le radici nel secondo dopoguerra. Palermo, devastata dai bombardamenti, affrontava un’enorme emergenza abitativa: oltre 200 mila alloggi distrutti e 227 mila sfollati. A partire dagli anni ’50, oltre alla ricostruzione del centro storico, si pianificarono nuovi quartieri popolari fuori dal nucleo antico, per ospitare le famiglie rimaste senza casa. La Piana dei Colli, vasta area verde a nord della città punteggiata da agrumeti e ville aristocratiche, divenne il terreno d’elezione per l’espansione urbana. il Piano Regolatore del 1962 prevedeva di prolungare l’elegante via Libertà attraverso queste campagne, ma tale piano si tradusse in una speculazione edilizia selvaggia passata alla storia come il “sacco di Palermo”. Proprio nel contesto di quel boom edilizio nacque l’idea dello ZEN.

Nel 1966 il Comune approvò un piano di edilizia economica popolare nella Piana dei Colli per trasferire in periferia parte delle famiglie poverissime del centro storico ancora in attesa di un alloggio dignitoso. Venne così avviata la costruzione del primo nucleo, lo ZEN 1, su terreni agricoli attorno all’antico Baglio La Gumina, nella periferia settentrionale della città. A differenza dei quartieri INA-Casa realizzati negli anni ’50, integrati nel tessuto urbano e concepiti a misura di “unità di vicinato”, lo ZEN venne pensato come un quartiere autosufficiente ma isolato, circondato da strade perimetrali e privo di integrazione con la città esistente. Questa impostazione da “quartiere satellite”, e chiuso in sé stesso, conteneva già in nuce delle fragilità: posizione decentrata estrema e carenza di urbanizzazioni primarie, fattori che avrebbero pesato sul futuro della zona.

Pochi anni dopo, un evento drammatico accelerò l’evoluzione del progetto. Nel 1968 il terremoto del Belice rase al suolo interi paesi nella Sicilia occidentale, lasciando migliaia di nuovi senzatetto anche a Palermo. Per far fronte all’emergenza, l’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) decise di ampliare lo ZEN. Nel 1969 bandì un concorso per un nuovo grande insediamento abitativo, che venne vinto l’anno successivo dal noto architetto Vittorio Gregotti insieme ad un team di progettisti tra cui Franco Purini e Salvatore Bisogni. L’idea di Gregotti era visionaria: immaginò uno Zen 2 come quartiere popolare modello, immerso nel verde, composto da grandi edifici lineari modulati in isolati chiamati “insulae”, disposti secondo una griglia ortogonale attorno a uno spazio centrale per i servizi collettivi. Il progetto del 1971 prevedeva in origine circa 15.700 abitanti, con 18 insulae, 6 per ciascuna di tre file parallele, intervallate da tre fasce attrezzate. La prima a nord per attività produttive, una a sud per impianti sportivi e una fascia centrale con scuole, previste sia a nord che a sud, negozi, chiesa e altri servizi collettivi, così da realizzare un nucleo residenziale autosufficiente e collegato al preesistente Zen 1. Nelle intenzioni degli architetti, lo ZEN 2 doveva essere un quartiere “armonioso”, che conciliava l’esigenza di nuove case con ampi spazi verdi e funzioni sociali.

Dalla costruzione al declino: cronologia di un fallimento annunciato

Dal sogno alla realtà il passo fu drammatico. Durante gli anni ’70, il cantiere dello ZEN 2 fu segnato da continui intoppi, varianti e ritardi. Gli architetti progettisti vennero progressivamente estromessi in fase esecutiva, mentre le ditte appaltatrici fallivano e i finanziamenti si disperdevano. In questo vuoto di controllo oltre la metà degli alloggi previsti – secondo alcune stime addirittura il 70% – venne occupata abusivamente prima ancora di essere completata, spesso con la complicità della mafia. Famiglie senza casa si insediarono come poterono nei palazzoni incompiuti, privi di allacci regolari di acqua e luce. “Per vent’anni è stato un quartiere senza servizi, occupato da chiunque. Ci portarono perfino gli sfollati del centro storico quando ancora mancavano acqua e luce” ricorderà amaramente Vittorio Gregotti. L’occupazione illegittima e caotica degli spazi ebbe due conseguenze immediate e devastanti. La prima è che bloccò definitivamente il completamento del quartiere secondo il piano originario e, inoltre, impedì la realizzazione di molte infrastrutture fondamentali, che infatti mancano o risultano carenti ancora oggi. A fine anni ’70 furono completate solo poche opere pubbliche isolate, alcune scuole e una chiesa monumentale tra lo Zen 1 e lo Zen 2, mentre intere sezioni del progetto rimasero sulla carta. Nel frattempo le baracche abusive e le “varianti dal basso” proliferavano. In assenza di assegnazioni regolari, la stessa politica o Cosa Nostra gestivano l’accesso alle case popolari, decidendo chi poteva occupare cosa. Tutti gli abitanti diventarono formalmente occupanti abusivi. Solo anni dopo i nuclei insediatisi per primi allo Zen 1 avrebbero ottenuto una sanatoria e la regolarizzazione dei propri alloggi, mentre lo Zen 2 è rimasto in gran parte terra di nessuno. “Tutti i residenti sono abusivi, ma le occupazioni più antiche (Zen 1) sono state legalizzate; infatti è subito evidente la diversa qualità ambientale” spiega una ricerca sociourbanistica. Col tempo, anche all’interno dello Zen 2 si è creata una stratificazione dell’emarginazione: alcune insulae sono occupate dai più “fortunati” che hanno ottenuto dal Comune una assegnazione provvisoria in custodia, primo passo verso la proprietà, e proprio in questi blocchi “privilegiati” si nota una manutenzione migliore e addirittura cancelli di ferro che chiudono gli androni; altre insulae invece versano nel degrado totale, abitate senza alcun titolo e senza alcun intervento pubblico.

Gli anni ’80 e ’90 consolidano la fama oscura dello ZEN. Nel 1990, in occasione dei Mondiali di calcio, la costruzione di una nuova bretella stradale per collegare la città all’aeroporto taglia ulteriormente fuori lo Zen dai quartieri limitrofi. Il tracciato autostradale realizzato per l’evento ha eliminato le strade di collegamento che univano lo Zen alle zone urbanizzate vicine, accentuandone l’isolamento. In quegli stessi anni lo Zen 2, ribattezzato formalmente quartiere “San Filippo Neri” dal nome della chiesa parrocchiale, diventa agli occhi dell’opinione pubblica sinonimo di periferia-ghetto. Le cronache nere lo dipingono come una “fortezza” del malaffare dove nemmeno le forze dell’ordine osano avventurarsi senza rischi. Le cosche mafiose, sfruttando l’architettura labirintica delle insulae, trasformano il territorio in una roccaforte per lo spaccio di droga e il traffico di armi. Latitanti eccellenti vi trovano rifugio protetti da una popolazione complice e dalla conformazione stessa del quartiere, “un luogo abitato da fantasmi, latitanti imprendibili, protetti dalla topografia e da una rete di complicità”, lo descrivono Questura e Carabinieri. Allo ZEN 1, intanto, la situazione è solo relativamente migliore anche perchè lì gli alloggi IACP erano stati completati e collaudati a suo tempo e, col processo di sanatoria, molti occupanti sono divenuti affittuari legittimi. Ma in generale l’intero comprensorio ZEN precipita in una condizione di abbandono: il paesaggio urbano presenta carcasse di auto bruciate, rifiuti ed erbacce nelle aree che dovevano essere piazze e giardini, panni stesi ai balconi sventrati, cani da combattimento tenuti nei garage abusivi, spaccio all’aperto e cemento rosicchiato dall’incuria. Le istituzioni latitano: la macchina burocratica appare incapace di risolvere il nodo delle occupazioni e di garantire i diritti basilari, ossia casa, servizi e sicurezza, ai residenti. Nel 2007 l’arresto del boss mafioso Salvatore Totò Lo Piccolo, che controllava anche lo Zen, fa scalpore, ma non cambia la sostanza dei problemi.

Eppure, anche nei decenni più bui, qualche timido segnale di inversione compare. Tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 vengono stanziati fondi speciali per riqualificare almeno in parte il quartiere: nel 2004 l’IACP ricostruisce l’insula “E3”, un blocco mai completato, e in seguito incendiato dai vandali, ricavandovi 122 alloggi nuovi, al posto dei 235 previsti dal piano Gregotti, e insediandovi alcuni presìdi di legalità, tra cui una stazione dei Carabinieri e un distaccamento dei Vigili Urbani. Il progetto, però, non crea la “cittadella dei servizi” immaginata Sebbene sia stato realizzato anche un piccolo anfiteatro, rimangono sulla carta la biblioteca, l’asilo nido, il poliambulatorio e gli spazi commerciali che avrebbero dovuto animare la piazza interna. L’intervento stesso viene criticato da Gregotti, perché l’insula ricostruita è stata chiusa come un fortino, tradendo la logica originaria aperta del quartiere. Nel frattempo è continuato il dibattito politico e accademico sul “caso Zen”. Già negli anni ’90 sociologi, urbanisti e magistrati portarono l’attenzione nazionale sulle periferie estreme delle città del Mezzogiorno, utilizzando lo Zen come esempio emblematico del fallimento delle politiche abitative e della penetrazione della mafia negli appalti pubblici ai tempi del sacco di Palermo. C’è persino chi, come l’architetto Massimiliano Fuksas, nel 2015 propone la demolizione totale dello Zen 2, al pari di altri grandi complessi degradati come il Corviale a Roma o le Vele di Scampia a Napoli. Ma la maggioranza degli osservatori concorda che la vera sfida sia un’altra: rammendare il tessuto urbano e sociale, ricucire lo Zen al resto della città, portare legalità e opportunità dove mancano. Da oltre trent’anni lo Zen è al centro di questo discorso pubblico, al punto da diventare “il luogo più famigerato della città, simbolo del degrado delle periferie e del fallimento di una politica urbanistica di vecchia data”.

Le criticità emerse: urbanistica, marginalità, criminalità e lavoro

La parabola dello ZEN 1 e 2 ha messo in luce una serie di criticità strutturali, intrecciate tra loro. Innazitutto l’isolamento urbanistico e carenze infrastrutturali: Fin dalla nascita, lo Zen soffre di un isolamento geografico rispetto al resto di Palermo. Inserito in un’area periferica ai piedi di Monte Pellegrino e separato dai quartieri residenziali da arterie a scorrimento veloce, il complesso appare “nettamene separato rispetto alle aree circostanti” e scarsamente collegato al tessuto urbano – una delle cause primarie del suo allarmante isolamento sociale. Le strade interne finiscono in vicoli ciechi, i collegamenti con il centro sono pochi e lenti, due sole linee di autobus urbani. Inoltre, la realizzazione incompleta del quartiere ha lasciato in eredità gravi carenze di urbanizzazione: moltissime abitazioni tutt’oggi non hanno allacci regolari alla rete idrica e fognaria, e nel passato persino luce e acqua venivano ottenute tramite allacci abusivi e “patti” con capizona locali. Mancano spazi pubblici curati: la piazza centrale progettata da Gregotti è rimasta un grande spiazzo spoglio invaso da rifiuti e sterpaglie; giardini e parchi praticamente non esistono. I palazzi stessi versano in condizioni fatiscenti, con intere porzioni di edifici mai rifinite o danneggiate e vani scala bui e degradati. Servizi essenziali assenti: pochissimi negozi (non c’è un mercato rionale né sportelli anagrafici), trasporti pubblici scarsi, illuminazione insufficiente. “I palazzi sono fatiscenti, i servizi inesistenti, l’illegalità diffusa” scrive un reportage, sintetizzando un contesto urbanistico ed edilizio di forte degrado. Recentemente un residente ha denunciato che “per avere una carta d’identità allo Zen serve dieci volte lo sforzo che altrove”, segno che persino i diritti di cittadinanza più basilari qui diventano complicati. Di fatto sono cresciute nerglio ZEN marginalità sociale e stigma: Lo Zen incarna una periferia ghettizzata anche sotto il profilo socio-culturale. La mancanza di spazi aggregativi positivi (centri civici, biblioteche, luoghi di ritrovo) e la distanza percepita dal “resto della città” hanno alimentato negli anni un forte senso di abbandono negli abitanti. “Chi vive lì si sente, giorno dopo giorno, scarto in un luogo trattato da scarto”, scrive amaramente Mariangela Di Gangi, attivista e consigliera comunale cresciuta nello Zen. Lo stigma legato al quartiere è potentissimo: “Zen” è sinonimo, nel linguaggio comune, di delinquenza e degrado. Non stupisce quindi che “lo Zen continui ad avere i tassi più alti di dispersione e abbandono scolastico” di Palermo, né che intere generazioni di giovani crescano senza mai uscire dal perimetro del quartiere, sviluppando un’identità separata. Gli stessi residenti si autodefiniscono “zenioti”, quasi fossero una tribù a parte. Una ragazza del posto, Clara, racconta la vergogna provata a scuola: «Immagina se i miei professori sapessero che vengo dallo Zen», confidava, temendo i pregiudizi. Un’altra adolescente preferiva non farsi accompagnare a casa dagli amici e si faceva lasciare un chilometro prima, pur di non confessare di abitare allo Zen, camminando da sola nel buio lungo viale Lanza di Scalea, il vialone che separa le case popolari dai quartieri bene. Questo senso di esclusione reciproca, la città che evita lo Zen e lo Zen che diffida della città ,alimenta una profezia che si autoavvera: “Quando la criminalità diventa la normalità, anche solo perché il mondo ti guarda già come un criminale, quella profezia dello stigma si autoavvera”, nota Di Gangi. I media, dal canto loro, spesso accentuano la cattiva fama: ogni episodio di cronaca nera allo Zen finisce in prima pagina, consolidando nell’immaginario collettivo l’idea di un “buco nero” urbano dal quale non può emergere nulla di buono. Tale etichettamento rende ancora più difficile per chi ci vive sentirsi parte della comunità cittadina e trovare riscatto. Non è inoltre possibiloe tenere conto della criminalità e controllo mafioso. Nel deserto istituzionale in cui è nato e cresciuto, lo Zen è stato terreno fertile per la criminalità organizzata e microcriminalità diffusa. Fin dagli anni ’80 Cosa Nostra ha messo le mani sul quartiere, gestendo di fatto le occupazioni abusive e imponendo il proprio sistema di regole. “Delle abitazioni non ancora completate si impossessa, di fatto, la mafia”, si legge in un rapporto: “Lung lungi dall’essere consegnate agli aventi diritto, vengono gestite in modo anomalo”. In pratica, i boss locali decidevano chi poteva occupare un alloggio e a quale prezzo. Ancora oggi “l’alloggio occupato può essere venduto, ceduto, acquistato. O meglio: il diritto all’abuso può essere venduto, ceduto, acquistato, una surreale compravendita illegale delle case popolari. Parallelamente, lo Zen è divenuto piazza di spaccio e deposito di armi illegali di primo piano. Le forze dell’ordine descrivono il quartiere come un dedalo di cunicoli dove le vedette avvisano immediatamente dell’arrivo degli “sbirri”. Le stesse caratteristiche architettoniche delle insulae, ossia le scale strette, i ballatoi interni e i passaggi sopraelevati, sono state sfruttate come trincee. Boss come Salvatore Lo Piccolo hanno dominato a lungo il traffico di droga locale proprio perché protetti dal muro di omertà e dalla struttura labirintica del rione. Negli androni bui non è raro imbattersi in armerie clandestine e cani da guardia addestrati per combattere. Il controllo del territorio da parte della criminalità si manifesta anche nella gestione di attività illegali di sopravvivenza: piccoli furti, racket sui piani di servizio, come ad esempio. la “tassa” al boss per poter chiudere abusivamente un pianerottolo e inglobarlo in casa propria) e il gioco d’azzardo di strada. È emblematico il racconto di Antonino, ex operaio rimasto senza lavoro: «Che dovevo fare? Avevo 44 anni, nessuno mi pigliava. Dovevo mettermi a rubare? Faccio la lotteria», spiega, vendendo biglietti di una riffa improvvisata per campare. In questo contesto, lo Stato è apparso a lungo assente o ostile. Le Forze dell’ordine entrano allo Zen quasi esclusivamente con operazioni repressive con blitz antidroga e rastrellamenti, rafforzando nei residenti la percezione di essere trattati solo come delinquenti. “Ridurre tutto a ‘teppistelli di quartiere’ o ‘feccia della società’ è un modo per non vedere la luna e fissarsi sul dito”, denuncia Mariangela Di Gangi, invitando invece a indagare in profondità “come e perché le armi circolano con tanta facilità, da dove arrivano” e quali interessi maggiori si annidino dietro la criminalità di superficie. La presenza mafiosa, infatti, non è mai scomparsa: sebbene i capi storici siano stati arrestati, il vuoto economico e sociale lascia spazio a nuove forme di illegalità organizzata, dallo spaccio al controllo dei servizi illegali. Lo Zen vanta purtroppo uno dei tassi di dispersione scolastica più alti d’Italia. Moltissimi ragazzi abbandonano gli studi già a 14-16 anni, chi per aiutare la famiglia con piccoli lavori in nero, chi attirato dai facili guadagni dello spaccio o del furto, chi semplicemente perché privo di sostegno e motivazione. Secondo i dati più attendibili, oltre la metà dei giovani non completa la scuola dell’obbligo, e in molti casi i bambini crescono con enormi difficoltà di apprendimento sin dalle elementari, a causa di un contesto familiare deprivato, genitori spesso semianalfabeti o disoccupati cronici. Emblematico il caso della scuola media “Giovanni Falcone”, unico istituto comprensivo del quartiere: più volte negli ultimi anni è stata vandalizzata con furto anche dei cavi elettrici, costringendo i ragazzi ai doppi turni. I dati di frequenza scolastica segnalano assenteismo record e performance scolastiche bassissime. La povertà educativa è amplificata dalla carenza di servizi, copme già evidenziato sopra. Chi cresce allo Zen, di fatto, parte con un handicap pesante rispetto ai coetanei di altri quartieri: “Se prendere un autobus per andare a scuola è già un’impresa, se ogni gesto quotidiano richiede dieci volte la fatica, allora siamo noi, come comunità, che chiediamo troppo a chi ha avuto troppo poco”. Dal punto di vista economico lo Zen rappresenta una delle aree più povere di Palermo e d’Italia. Le statistiche indicano un tasso di disoccupazione attorno al 51% (contro una media cittadina intorno al 20%) e circa una famiglia su cinque vive sotto la soglia di povertà. La mancanza di lavoro regolare è cronica: l’insediamento nacque senza poli produttivi veri, la zona artigianale prevista a nord non è mai decollata, e la distanza dal centro scoraggia le imprese ad investire. Molti abitanti tirano avanti con lavoretti informali o sussidi: c’è chi fa il meccanico in nero in un garage, chi vende cianfrusaglie al mercatino, chi campa di espedienti come le lotterie clandestine o il contrabbando. Il tasso di occupazione femminile è bassissimo anche perchè le donne non lavorano, stanno a casa, si alzano tardi, restano in pigiama”, racconta Gaetano Savatteri, “spesso i figli vengono travolti dall’indolenza materna, abbandonano la scuola e prendono la via della strada”. In assenza di alternative, l’economia illegale prospera. Lo spaccio di droga è fonte di reddito per decine di giovani; le occupazioni abusive stesse generano un indotto, stiamo parlando di affitti in nero, allacci abusivi venduti e i patronati malavitosi forniscono quel che manca, ad esempio bombole del gas o piccoli prestiti, in cambio di fedeltà. Questa situazione genera ulteriore dipendenza assistenziale e isolamento dal mercato del lavoro ufficiale. I pochi residenti che conseguono titoli di studio o qualifiche spesso scelgono di emigrare altrove, stanchi di lottare contro pregiudizi e mancanza di opportunità: “Me ne andrei a Londra o anche solo a Taranto” confessa amaramente una ragazza dello Zen intervistata da Concita De Gregorio, esprimendo un desiderio di fuga comune a molti giovani del quartiere.

Nel 2020 è stato presentato, proprio allo ZEN 2, un intervento in condivisione tra Università e Comune di Palermo, che si sta procedendo a realizzare con maestranze del COIME (Coordinamento degli Interventi di Manutenzione Edile), nell’ambito del Progetto “G124” coordinato dal Senatore a vita Renzo Piano dal titolo “Il rammendo delle periferie – Trenta alberi per lo ZEN 2”. Ma si trattava di un intervento minimo, per usare il lessico di Renzo Piano “di una goccia” la cui forma architettonica e urbana dipende, in modo determinante, dagli alberi. Un intervento ‘seme’ che nello spirito di Renzo Piano serve appunto a far germogliare e crescere la bellezza, il rispetto per il decoro, per la città e per gli altri. E invece oggi lo Zen è lì, con la sua nomea, con lo stigma di opeggiore periferia italiana. Con i morti che genera.

Rimane da (ri)scrivere il finale del “romanzo di una periferia”

Come scrisse l’antropologo Ferdinando Fava dopo aver vissuto due anni tra queste case, lo Zen incarna “il romanzo di una periferia” italiana fatto di rabbia, dolore ma anche solidarietà e desiderio di risalita. Quel romanzo è ancora in cerca di un finale diverso, più giusto e più umano, e non è detta l’ultima parola.

Roberto Greco

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