Mangeremo banane siciliane? La Sicilia come l’India o l’America Latina? Alcuni territori diventano sempre più adatti a frutti tipici di tutt’altra parte del mondo e lo scenario produttivo del comparto ortofrutticolo dell’isola ha aggiunto da tempo prodotti come il mango e l’avocado. Oppure il caffè, che oggi è coltivato da un noto brand siciliano nella provincia di Palermo.
La complicità del cambiamento climatico
A causa del cambiamento climatico in alcuni territori, e la Sicilia rientra tra questi, si raggiungono temperature particolarmente elevate che li rende adatti a coltivazioni impensabili fino a qualche decennio fa. E le banane non sono estranee a questo scenario dal sapore indo-sudamericano. A ufficializzare in Sicilia l’ingresso su più ampia scala della bacca gialla è Chiquita, che sceglie Marina di Ragusa per la sua prima coltivazione tutta italiana. Si tratta della Cavendish, una varietà che produce frutti relativamente lunghi, dalla polpa compatta fino agli ultimi stadi di maturazione in cui diventa molto morbida e più dolciastra. La Cavendish è uno dei tanti ibridi ottenuti nel tempo dall’incrocio delle specie Musa acuminata e Musa balbisiana per ottenere frutti con quantità sufficienti di polpa. Gli incroci resero infatti possibile la coltivazione di specie senza semi, che nelle banane selvatiche occupano un grande spazio all’interno del frutto. Sull’isola esistevano già piantagioni di banane portate avanti da aziende ortofrutticole di più piccole dimensioni ma l’arrivo di una multinazionale fa prevedere coltivazioni massicce e intensive.
Le banane made in Sicily
Il mutato clima siciliano sempre essere quindi più favorevole ad accogliere frutti tradizionalmente legati ad aree geografiche diverse, quali l’India, che detiene il primato mondiale in termini di quantità di banane prodotte, seguita da Brasile ed Ecuador. Il colosso americano con sede in Florida ne approfitta avviando già da questo ottobre la prima fase della messa a dimora di 20.000 piante biologiche. Segno che le multinazionali si sono accorte del potenziale drammaticamente positivo nascosto nella negatività dei cambiamenti climatici.
Va detto che il gigante statunitense delle banane sbarca in Sicilia con un bagaglio non leggero. Vecchie accuse di greenwashing, inquinamento ambientale e finanziamento di gruppi paramilitari, oltre ai tumultuosi trascorsi, alcuni abbastanza recenti, con i suoi dipendenti.
Come già indicato, l’area selezionata è quella di Marina di Ragusa, dove la multinazionale collaborerà con la locale cooperativa agricola Alba Bio, dedita al biologico. Le prime banane italiane col “bollino blu” dovrebbero essere pronte da mangiare e immesse sul mercato dal 2026. Di positivo, senza dubbio, c’è la drastica riduzione dell’inquinamento dettata solitamente dal trasporto oltreoceanico della bacca.
Alto consumo di acqua e altri timori
Anche la banana sembra quindi essere candidata alla definizione di “chilometro zero”, ma non mancano del tutto i timori. Come quelli relativi all’equilibrio ambientale e umano. O al fatto che la banana – come ha evidenziato Altromercato in una sua analisi – veniva tradizionalmente definita “fruta quimica”. Questo perché la coltivazione delle banane e l’industria che le ruota attorno consumano più prodotti chimici per l’agricoltura di qualsiasi altra al mondo, seconda solo al cotone. Alcune di queste sostanze chimiche sono classificate come molto pericolose dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’uso agrochimico inquina le risorse idriche, contamina i suoli dove crescono le banane e può avere effetti devastanti sui lavoratori. Va inoltre tenuto conto che la tradizionale coltivazione di banane, in generale, ha bisogno di moltissima acqua e forse, come tutte le culture idrovore, potrebbe non riuscire ad inserirsi nel delicato ciclo di gestione dell’acqua nell’isola, visto quanto è accaduto negli ultimi anni. Le garanzie che tutto ciò non si trasformi nell’ennesimo disastro annunciato sembra essere parte delle dichiarazioni della multinazionale che, sul proprio sito, scrive «Le banane hanno bisogno di acqua per crescere: per la crescita e il trattamento di 1 kg di banane occorrono tra i 400 e i 600 litri di acqua, inclusa la pulizia e il “dehanding”,ovvero il processo di separazione di grandi grappoli di banane in piccole “caschi” da cinque a sei frutti. L’acqua piovana rappresenta maggior parte dell’acqua utilizzata per la coltivazione delle nostre banane, ma nelle zone più aride dobbiamo fare ricorso all’irrigazione. In questo ambito, siamo passati da un’irrigazione aerea dispendiosa a sistemi di mini e micro-irrigazione a basso consumo idrico, che riducono il nostro consumo di acqua di circa l’80%, con un risparmio annuo di 1,7 miliardi di litri. Abbiamo anche installato sistemi di “dehanding a secco” nel 23% delle nostre aziende agricole, risparmiando altri 160 milioni di litri d’acqua ogni anno. Siamo anche molto attenti alle acque reflue prodotte dalle nostre attività, filtrando le parti solide e proteggendo fiumi e torrenti dall’inquinamento. Laboratori esterni controllano regolarmente la qualità dell’acqua nei nostri fiumi e torrenti per garantire che i sistemi di filtraggio funzionino correttamente».
Roberto Greco







































