Palermo, 23 settembre 1983. Una rapina in una piccola sanitaria del quartiere Arenella si trasforma in tragedia: Rosalia “Lia” Pipitone, 25 anni, viene colpita a morte da colpi di pistola esplosi da due malviventi durante la fuga. Così almeno sembra. In realtà quella rapina è una messinscena orchestrata dalla mafia: Lia è stata deliberatamente assassinata per punirla della sua ribellione alle regole patriarcali di Cosa Nostra. Dietro l’omicidio si celano infatti l’“onore” del clan e una drammatica storia familiare: Lia è figlia di un boss mafioso e aveva osato reclamare la propria indipendenza di donna, pagando questo affronto con la vita. Quello di Lia Pipitone è un caso emblematico in cui mafia e violenza di genere si intrecciano, rimasto impunito per decenni e ancora oggi ferito da un paradosso tutto italiano: pur essendo stata uccisa dalla mafia, lo Stato non la riconosce ufficialmente come vittima innocente di mafia, a causa della parentela con chi ne ordinò la morte. Questa è la storia di Lia, giovane madre, figlia “ribelle” di Cosa Nostra, e della lunga battaglia per ottenere verità e giustizia sul suo omicidio.
Una giovane donna in gabbia, Lia Pipitone
Lia Pipitone nacque a Palermo il 16 agosto 1958, in una famiglia intrisa di mafia. Suo padre è Antonino “Nino” Pipitone, boss del mandamento dell’Acquasanta-Arenella, vicinissimo ai capimafia corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Cresciuta in questo contesto fortemente patriarcale, Lia sviluppa un’indole libera e moderna, in netto contrasto con l’ambiente maschilista e autoritario in cui vive. Ama l’arte, il mare, la musica e la lettura, scrive poesie e ascolta cantautori come Guccini, passioni che alimentano la sua voglia di emancipazione. Ma quella di Lia è un’adolescenza difficile: in casa regna un clima oppressivo e il padre le concede pochissima autonomia perché perfino uscire a fare una passeggiata da sola le è vietato. L’unico luogo dove la ragazza può respirare un briciolo di libertà è la scuola, e proprio tra i banchi di liceo Lia conosce colui che diventerà suo marito, Gerolamo “Gero” Cordaro.
La vita di Lia è segnata da atti di ribellione contro l’oppressione familiare. Nel 1977, a 18 anni, la ragazza scappa di casa per una “fuga d’amore” con il fidanzato. Dopo una settimana fuori Palermo, torna quando viene a sapere che il padre la sta cercando furiosamente. Pur di riallacciare i rapporti e salvarla, Nino Pipitone accetta di farle sposare Gero, anche se nei modi tradizionali che lui pretende, e fornisce una casa alla giovane coppia nel suo quartier generale dell’Arenella, procurando un lavoro al genero. Sembra una tregua. Lia si riunisce alla famiglia, nel 1979 nasce il figlio Alessio e per qualche tempo tutto sembra normalizzato. Ma la sete di libertà di Lia torna presto a manifestarsi anche nella vita coniugale: la giovane inizia a uscire spesso, anche da sola, incurante delle malelingue del quartiere. Ad Arenella infatti corrono voci su una sua possibile relazione fuori dal matrimonio, un’amicizia intima con un cugino di secondo grado, Simone Di Trapani. In realtà Simone è semplicemente il suo migliore amico d’infanzia, ma in quella “subcultura” mafiosa anche solo il sospetto di un tradimento diventa un marchio infamante per il padre, che come uomo d’onore non può tollerare di essere deriso. La goccia che fa traboccare il vaso arriva nell’estate 1983 quando Lia decide di lasciare il marito e andare a vivere da sola, un passo inaudito per una “figlia di mafia” dell’epoca. Quando comunica al padre la volontà di abbandonare il tetto coniugale per rifarsi una vita indipendente, la reazione di Nino Pipitone è feroce, tanto che le sputa in faccia per lo sdegno. Lia, per tutta risposta, compie un gesto simbolico di rottura con le imposizioni paterne: si taglia i suoi lunghi capelli e se li colora di scuro, quasi a simboleggiare una nuova identità fuori dalle regole della famiglia. Ma quello sarà il suo ultimo atto di libertà.
L’omicidio inscenato: la “finta rapina” del 23 settembre 1983
Il pomeriggio del 23 settembre 1983 Lia esce di casa per alcune commissioni. Intorno alle 18:30 entra in un negozio di articoli sanitari e per l’infanzia, la “Farmababy” di via Papa Sergio 61, nella borgata Arenella, in pieno territorio controllato dalla famiglia mafiosa dell’Acquasanta, a poca distanza da casa Pipitone. Lia è entrata per usare il telefono pubblico del negozio perchè vuole chiamare una sua amica. Proprio in quel momento irrompono due uomini armati e con il volto coperto: fingono di compiere una rapina, intimando alla titolare di consegnare l’incasso, circa 250 mila lire. Ottenuto il denaro senza opposizione, i finti rapinatori improvvisamente aprono il fuoco: sparano un colpo che colpisce Lia alle gambe e poi scappano fuori. Pochi istanti dopo, come in un copione ben studiato, rientrano nel negozio e finiscono la vittima con tre colpi a bruciapelo al petto, lasciandola agonizzante. La scena è agghiacciante e apparentemente senza logica: perché mai dei ladri avrebbero dovuto sparare a sangue freddo a una cliente inerme dopo aver già ottenuto i soldi? Eppure è ciò che sosterrà la prima versione ufficiale dei fatti.
Lia Pipitone viene soccorsa e trasportata d’urgenza in ospedale, ma le ferite sono troppo gravi. Muore quella stessa sera alle 22:20 all’Ospedale Civico di Palermo. Gli assassini si sono dileguati e sul luogo restano pochi indizi. Subito dopo il delitto, gli investigatori raccolgono le testimonianze dei proprietari del negozio (Giovanni Lo Monaco e Rosalia Sciortino). I due confermano che i banditi avevano ottenuto i soldi senza problemi e non c’era stato alcun gesto di reazione da parte di Lia; l’atto di sparare alla ragazza appare del tutto immotivato. Fin dai primi momenti, insomma, l’alibi della rapina andata male vacilla: non c’è nessun motivo plausibile perché i rapinatori “balordi” uccidano a sangue freddo una cliente dopo aver incassato il bottino. E un altro dettaglio inquietante cala il silenzio su via Papa Sergio: Nino Pipitone, il padre mafioso di Lia, non reagisce affatto all’uccisione della figlia. In quegli anni di sangue, in cui a Palermo si moriva anche solo per uno sguardo di troppo rivolto a un boss, sorprende che la mafia locale resti indifferente di fronte alla morte violenta della figlia di un proprio “uomo d’onore”. Col senno di poi, questo comportamento anomalo del boss Pipitone fu uno dei segnali rivelatori del suo coinvolgimento.
Nonostante i sospetti, nel 1983 l’omicidio viene archiviato come una rapina finita in tragedia. In assenza di colpevoli identificati, l’inchiesta si arena rapidamente. Il giudice istruttore emette una sentenza di non doversi procedere per ignoti. Eppure, un ulteriore episodio tragico avvenuto il giorno successivo avrebbe potuto far emergere subito la vera pista. La mattina del 24 settembre 1983, infatti, il ventenne Simone Di Trapani, cugino di Lia e da molti ritenuto il suo amico del cuore, viene trovato morto ai piedi di un palazzo in piazza Pietro Cascino, non lontano dall’Arenella. Il ragazzo è precipitato dal quarto piano della sua abitazione. Accanto al corpo viene rinvenuto un biglietto vergato di suo pugno con poche parole: “Mi uccido per amore”. Agli occhi degli inquirenti è un suicidio: un giovane innamorato che si toglie la vita per la disperazione di aver perso Lia. La spiegazione appare convincente e chiude il cerchio: sulla base di alcune confidenze, la Polizia apprende infatti della relazione intima tra Lia e Simone, e così formula un’ipotesi alternativa sul movente rispetto alla rapina casuale. Secondo questa nuova teoria dell’epoca, sarebbe stato il marito di Lia a ordinare l’omicidio per vendicare il proprio onore tradito, simulando una rapina per depistare. La tragica morte di Simone, vista come un suicidio d’amore, sembrerebbe quasi confermare il movente passionale. In realtà, si tratta dell’ennesima messinscena ordita da Cosa Nostra: molti anni dopo, un collaboratore di giustizia rivelerà che anche la fine di Simone fu tutt’altro che volontaria. Il pentito Angelo Fontana racconterà che Di Trapani venne buttato giù dal balcone dagli stessi assassini di Lia, i mafiosi del clan Galatolo, dopo averlo costretto a scrivere quel biglietto d’addio per inscenare un suicidio. All’epoca, però, nessuno immagina una tale macchinazione. Così la tragica vicenda di Lia Pipitone e del suo amico si chiude ufficialmente nel 1983 senza colpevoli né verità: per tutti è solo un caso di criminalità comune e un gesto disperato d’amore. La realtà, come si scoprirà, era ben diversa.
Le indagini e i processi: verità rimossa e riscoperta
Per oltre un decennio la storia di Lia Pipitone resta sepolta nei fascicoli polverosi di un cold case, archiviata come un episodio oscuro di periferia. Ma nella memoria di chi l’ha conosciuta e negli ambienti mafiosi la verità non è mai stata davvero un mistero: “In Cosa Nostra girava voce che Lia era stata uccisa in base alle regole mafiose. Lei non ne faceva parte, ma il padre sì”, riferirà anni dopo Giovanni Brusca. Il primo squarcio nell’omertà si apre nel 1995, quando un pentito eccellente, Francesco Marino Mannoia, confessa ai magistrati quello che tutti i boss sapevano: Lia Pipitone venne fatta uccidere dal padre “perché tradiva il marito” e per eseguire il delitto fu simulata una rapina. Le dichiarazioni che Mannoia rese durante il processo Golden Market a Roma spingono la Procura di Palermo ad aprire un fascicolo sul caso. Negli anni successivi, altri collaboratori di giustizia confermano quei racconti. Si tratta di Calogero Ganci, Francesco Onorato, Antonino Giuffrè e Brusca. Riferiscono tutti la stessa cosa, ovvero che Nino Pipitone aveva “autorizzato” l’eliminazione della figlia per lavare una macchia d’onore familiare. “Meglio una figlia morta che separata” ripeteva il boss Pipitone secondo questi pentiti, e Cosa Nostra aveva semplicemente eseguito la ferrea regola.
Sulla base di queste rivelazioni, nel gennaio 2003 scatta finalmente un provvedimento giudiziario: Antonio “Antonino” Pipitone, ormai settantenne, viene arrestato con l’accusa di aver ordinato l’omicidio della propria figlia per “delitto d’onore”. La notizia desta clamore: un boss mafioso arrestato per aver fatto uccidere la figlia adultera, una storia quasi medievale che getta luce su un volto poco noto di Cosa Nostra. Secondo gli inquirenti, fu proprio il padre, consigliere influente della cosca dell’Acquasanta, a chiedere ai suoi sodali di “risolvere il problema”. Quel problema rappresentato da Lia. Antonino Pipitone, vedendosi deriso nell’ambiente per la condotta libera della figlia, ne parlò con i vertici mafiosi del mandamento. In quel periodo il capomandamento di Resuttana, da cui dipendeva la zona Acquasanta-Arenella, era Ciccio Madonia, che però essendo detenuto o malato lasciava le decisioni al figlio Antonino detto “Nino” Madonia. Nino Madonia convocò Pipitone padre e comunicò che la “soluzione” sarebbe stata eliminare Lia. Una decisione a cui il boss-papà non si sottrasse, in ossequio alla mentalità mafiosa che condivideva. Seguendo le regole gerarchiche di Cosa Nostra, Madonia poi incaricò il rappresentante della famiglia dell’Acquasanta, Vincenzo Galatolo, di occuparsi dell’esecuzione materiale del delitto. Fu così pianificato nei dettagli l’omicidio da realizzare simulando una rapina, in modo da occultarne i veri motivi. Va sottolineato come questa ricostruzione trovi riscontro anche in un fatto: nessuna “lupara bianca” fu usata per Lia. La mafia scelse di ucciderla in pubblico, in un negozio, sparandole, ma di mascherare il tutto da criminalità comune. Un trattamento “esemplare” per punire l’affronto, ma allo stesso tempo proteggere l’onorabilità del clan, evitando che fosse palese l’esecuzione interna.
Nonostante le forti indicazioni dei pentiti, il primo processo celebrato dopo l’arresto di Pipitone si conclude amaramente. Nel 2006 il boss-padre viene assolto in via definitiva per insufficienza di prove. Le testimonianze raccolte erano tutte de relato, ovvero indirette, basate su voci, e non fu possibile identificare con certezza gli esecutori materiali del delitto. Inoltre, emerse una circostanza temporale dubbia sfruttata dalla difesa. Pare che la relazione tra Lia e Simone Di Trapani risalisse a diversi anni prima, forse già al 1979 quando Lia era incinta del figlio, mentre il delitto avvenne nel 1983, sollevando interrogativi sulla reale causa scatenante. Sta di fatto che Antonino Pipitone uscì legalmente indenne dall’accusa di omicidio della figlia. Il vecchio boss, anziano e malato, morirà nel 2010 senza aver mai pagato per quella colpa. La giustizia sembrava destinata a negarsi per sempre a Lia.
A riaccendere la speranza sarà, anni dopo, la determinazione di Alessio Cordaro quel bambino rimasto orfano nel 1983. Diventato adulto, Alessio non si rassegna all’oblio attorno alla morte della madre. Ha ricostruito i fatti, raccolto documenti e testimonianze che confermano i sospetti su suo nonno. Insieme al giornalista Salvo Palazzolo, nel 2012 decide di raccontare pubblicamente la vicenda in un libro-inchiesta intitolato “Se muoio, sopravvivimi”. La sua iniziativa ha un duplice scopo. Da un lato onorare la memoria di Lia e dall’altro spingere la magistratura a riaprire il caso. Il libro, che ricostruisce la storia rimasta nascosta per quasi 30 anni, ottiene proprio questo risultato. Nuovi collaboratori di giustizia, come Francesco Di Carlo e Rosario Naimo, aggiungono dettagli decisivi e nel 2013 la Procura di Palermo riapre formalmente le indagini. Vengono finalmente portati alla sbarra i mandanti mafiosi dell’omicidio di Lia, Vincenzo Galatolo e Antonino “Nino” Madonia, figure di vertice rispettivamente della cosca dell’Acquasanta e del mandamento di Resuttana. Nel nuovo processo, che si svolge col rito abbreviato, emergono tutte le verità celate per decenni. Lia fu uccisa “perché libera” e indipendente, perché “nata per la libertà e morta per la sua libertà”, come sintetizza efficacemente il pentito Di Carlo. Le motivazioni della sentenza confermano che l’omicidio maturò interamente in seno a Cosa Nostra, pianificato in ogni dettaglio per farlo sembrare una rapina degenerata. Emblematiche le parole messe nero su bianco dal GUP Maria Cristina Sala: «L’offesa all’onore del mafioso Pipitone, dovuta alla relazione extraconiugale della figlia, divenne inevitabilmente un’offesa all’onore di tutta l’organizzazione mafiosa di cui egli faceva parte. Da qui la decisione di uccidere Lia per lavare col sangue l’affronto, secondo un codice mafioso che non poteva tollerare quella condotta». Nel luglio 2018 arriva finalmente la verità giudiziaria: Galatolo e Madonia vengono condannati a 30 anni di reclusione ciascuno per l’omicidio di Lia Pipitone, con interdizione perpetua dai pubblici uffici. Galatolo era ritenuto il reggente della famiglia mafiosa esecutrice, mentre Madonia il mandante in qualità di capo del mandamento. Per entrambi la sentenza riconosce che agirono con il consenso del padre di Lia, definendo l’omicidio come “pianificato ed eseguito dall’organizzazione mafiosa” per punire una condotta ritenuta intollerabile. Purtroppo, come detto, il padre-boss non siederà mai sul banco degli imputati in questo processo. Antonino Pipitone è deceduto poco prima, risultando “impossibilitato ad essere punito” e portando con sé la propria responsabilità morale. La pronuncia del 2018, confermata anche in Cassazione, chiude così un percorso lungo 35 anni, stabilendo ufficialmente ciò che molti sapevano dal principio: Lia fu vittima della mafia e del suo perverso codice d’onore.
Alla lettura del verdetto, in aula, Alessio Cordaro e il padre Gero Cordaro, il marito di Lia, siedono come parte civile contro i boss imputati. È anche merito loro se si è giunti a questo risultato. L’avvocato di famiglia, Nino Caleca, commenta commosso: “Questa sentenza smaschera i falsi valori su cui è fondata Cosa Nostra. Lia è morta per difendere la libertà di tutte le donne. Andrebbe studiata nelle scuole”. Il PM Francesco Del Bene, che aveva raccolto la sfida della riapertura, dichiara che la storia di Lia “parla al cuore” e incarna il riscatto di chi si ribella alla cultura mafiosa. Finalmente, almeno sul piano giudiziario, la verità negata viene affermata, Lia Pipitone fu assassinata dalla mafia su mandato del padre per aver voluto decidere della propria vita.
Movente e contesto: onore mafioso e punizione esemplare
Il caso di Lia Pipitone si colloca in un preciso contesto mafioso-familiare. Siamo nella Palermo dei primi anni ’80, in piena seconda guerra di mafia, quando i clan dei Galatolo e dei Madonia sono alleati dei Corleonesi e partecipano alla strategia stragista contro i nemici di Cosa Nostra. In questo scenario di violenza diffusa, la vicenda di Lia rappresenta un “delitto trasversale”: la mafia che normalmente uccide i suoi avversari, qui uccide invece una propria figlia, colpevole solo di aver trasgredito alle regole interne. È un femminicidio mafioso, frutto di quella stessa mentalità patriarcale che opprime le donne tanto nella società civile quanto, in forma ancora più estrema, nelle famiglie di mafia. Per la Cosa Nostra dell’epoca, una donna “troppo libera” è un pericolo: mina l’autorità dei patriarchi e l’immagine di rispettabilità che essi vogliono proiettare. “Lia portava solo il cognome dei Pipitone, ma non era una di loro”, scriverà efficacemente un cronista, evidenziando come la giovane si sentisse estranea ai codici oscurantisti della propria famiglia. Il movente dell’omicidio è riconducibile principalmente al cosiddetto “onore mafioso”: Lia avrebbe “disonorato” il padre e l’intero clan intrattenendo, o anche solo venendo sospettata di intrattenere, una relazione extraconiugale, e inoltre rifiutando il ruolo di moglie obbediente impostole. In altre parole, la sua sete di indipendenza personale costituiva un affronto intollerabile nella subcultura mafiosa. “Meglio morta che divorziata” fu la crudele sentenza che segnò il destino di Lia. Nino Pipitone antepose la fedeltà a Cosa Nostra all’amore paterno, scegliendo di sacrificare sua figlia pur di non contravvenire alle regole d’onore del clan.
Esistevano anche altre possibili chiavi di lettura del delitto, circolate negli anni prima dell’accertamento definitivo. Come visto, una prima ipotesi alternativa ipotizzò un movente passionale privato, quello del marito di Lia geloso e vendicativo. Questa pista però non ha mai trovato riscontri ed è stata smentita dai fatti emersi. Un’altra interpretazione, abbozzata da alcuni, riguardava l’idea di una vendetta interna tra famiglie mafiose: qualcuno avrebbe potuto colpire la figlia del boss per colpire lui. Tuttavia, anche questa teoria è contraddetta dall’evidenza principale: l’inazione del padre e dell’organizzazione dopo l’omicidio. Se fossero stati nemici esterni ad uccidere Lia, la reazione mafiosa sarebbe stata immediata e feroce, invece non accadde nulla, segno che per la mafia quella morte era “legittima”. Dunque la spiegazione più semplice è anche la vera: fu un delitto d’onore interno, voluto dallo stesso padre e attuato con il consenso della “Commissione” locale. Purtroppo, non si trattò un caso unico: nella storia di Cosa Nostra vi sono altri esempi di donne uccise dai loro familiari per punire una condotta sentimentale giudicata sconveniente. Proprio nel 1983, ad esempio, il boss Giuseppe “Lucchiseddu” Lucchese fece assassinare la sorella Giuseppina e la cognata Luisa Gritti, ree di relazioni extraconiugali; anche in quel caso si inscenò una finta rapina in un bar di Palermo, e i corpi vennero trovati con macabri segnali “d’onore”, nello specifico l’amante di una fu ritrovato col simbolo infamante dei genitali in bocca. “Valori malati, tramandati di generazione in generazione”, come li ha definiti Antonello Cracolici, presidente della Commissione Antimafia siciliana. La mafia, con il suo codice ipocrita di morale ferrea, da un lato vieta l’adulterio e impone obbedienza, dall’altro commette i crimini più efferati persino verso i propri figli pur di salvare la facciata dell’“onore”. La storia di Lia Pipitone è figlia di questa logica perversa.
La battaglia del figlio Alessio, da orfano a testimone di verità
Dopo la morte di Lia, suo figlio Alessio aveva soltanto 4 anni. In un attimo quel bambino si trovò privato della madre e immerso in un contesto familiare lacerato e ambiguo. “Ho pochissimi ricordi di mia mamma, quasi nessuno. Ma ho foto di noi due al mare: lei amava moltissimo il mare e ci passavamo le giornate”, racconta Alessio, oggi adulto. Nei giorni successivi al delitto, al piccolo fu raccontato che la madre era morta in un incidente: solo da adolescente scoprì la verità, quando il padre Gero, che nel frattempo si era trasferito con lui lontano da Palermo, gli consegnò un raccoglitore di articoli di giornale dell’epoca. Da quel momento Alessio prese piena consapevolezza del dramma. “Istintivamente, non mi è rimasto che schierarmi”, ricorda, spiegando di aver subito troncato ogni legame con i parenti materni, che già da bambino percepiva con diffidenza. Nel suo cuore, confessa, ha “sempre sospettato che il nonno avesse un ruolo in quella tragedia”. E infatti un giorno trovò il coraggio di affrontarlo direttamente. Andò da Antonino Pipitone a chiedergli spiegazioni. Il nonno lo portò in terrazza, temendo microspie in casa, e negò ogni coinvolgimento, ma Alessio non gli credette perchè “in un modo o nell’altro mi ero già dato le risposte che cercavo”.
Diventato adulto, Alessio Cordaro ha fatto della ricerca di giustizia per sua madre la missione della propria vita. “Prima combattevo contro la criminalità organizzata, ora combatto contro la burocrazia”, ha dichiarato amaramente. Infatti, oltre a impegnarsi per la verità giudiziaria, Alessio ha dovuto lottare contro un paradosso legislativo. La legge italiana prevede che per riconoscere lo status di vittima innocente di mafia la vittima non debba avere legami di parentela con ambienti mafiosi. Una norma pensata per evitare abusi, che però ha prodotto un caso assurdo: Lia Pipitone, uccisa dalla mafia proprio perché si ribellò alla mafia, non può essere ufficialmente riconosciuta vittima innocente soltanto perché era figlia di un boss. Così ad Alessio, in quanto familiare, sono stati negati i benefici previsti per i familiari delle vittime di mafia. “È assurdo: chi appartiene a quei mondi porta un marchio indelebile per tutta la vita… Il messaggio che passa è sbagliato”, denuncia Alessio, che si batte affinché il sacrificio di sua madre fosse riconosciuto e servisse da esempio per altre donne nella sua situazione. Nel frattempo, la sua più grande vittoria è stata quella di strappare la vicenda di Lia dall’oblio dell’omertà e portarla all’attenzione pubblica. “Parlarne è l’unica parte piacevole di questo percorso”, dice riferendosi agli incontri che tiene nelle scuole e in vari eventi. All’inizio gli pesava molto rivangare un dolore personale così grande, ma poi ha capito che raccontare la storia di sua madre era un dovere di memoria e un atto di coraggio. Dal 2012 in poi, con la pubblicazione del libro e le iniziative successive, Alessio è diventato il portavoce della memoria di Lia Pipitone. Partecipa a convegni antimafia, testimonia davanti agli studenti, collabora con le associazioni che lottano contro la violenza sulle donne. “Ogni volta che torno da un incontro con gli studenti ricevo più di quanto do”, racconta, sottolineando come i giovani siano ricettivi e assetati di giustizia. In particolare, ricorda uno spettacolo teatrale messo in scena da una scuola elementare di Palermo, in un quartiere difficile, che raccontava la storia di Lia. Alla domanda dell’insegnante su cosa pensasse della mafia e della violenza sulle donne, una bambina ,figlia di un pregiudicato, in dialetto rispose “Assolutamente no”. “Ecco perché racconto la storia di mia madre”, conclude Alessio. La sua testimonianza vivente è la prova che anche chi nasce in famiglie mafiose può scegliere la legalità e la verità.
Grazie a questa instancabile battaglia civile, Lia Pipitone oggi non è più un nome dimenticato. Nel 2018, su iniziativa di cittadini e istituzioni locali, Lia è stata ufficialmente inserita nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie ricordate ogni anno il 21 marzo. Anche se manca ancora il riconoscimento burocratico formale, il suo nome viene pronunciato assieme a quello di giudici, giornalisti, poliziotti e persone comuni uccisi dalle mafie, segno di riscatto morale. “Lia è morta per la sua voglia di libertà”, ha detto il PM Del Bene, e la sua vicenda ora viene portata ad esempio nelle scuole e nei dibattiti pubblici. Nel 2022 la RAI le ha dedicato una puntata del programma Cose Nostre, dal titolo “La figlia del boss”, che ne ricostruisce la vita e la tragica fine con testimonianze dirette di Alessio e del marito Gero Cordaro. “Meglio morta che divorziata” era l’atroce frase che aleggiava su di lei, ricorda la conduttrice Emilia Brandi, e proprio quella scelta di libertà fu la sua condanna. Ma oggi quella frase viene capovolta nel suo significato. Lia Pipitone non è più solo vittima di un codice d’onore perverso, bensì un simbolo di coraggio femminile contro le imposizioni mafiose.
Memoria e impegno: l’eredità di Lia Pipitone
Oggi, a oltre 40 anni dall’omicidio, Palermo non dimentica Lia. Il suo ricordo è coltivato sia a livello istituzionale sia dalla società civile, quale esempio di resistenza al duplice giogo della mafia e del maschilismo. Nel quartiere Arenella, proprio davanti alla saracinesca della vecchia sanitaria di via Papa Sergio, è stata finalmente apposta una targa in sua memoria: una mattonella di ceramica che ne ricorda il nome, la data e il perché della morte. L’iniziativa, promossa dall’associazione Libera e dal Comune, è stata inaugurata il 14 giugno 2025 con una cerimonia toccante: presente il figlio Alessio Cordaro, che ha personalmente scoperto la targa, insieme al sindaco di Palermo e ad altri rappresentanti istituzionali. “Quella per Lia Pipitone non è solo una mattonella commemorativa, ma racconta una storia individuale e collettiva”, ha dichiarato Libera durante l’evento. “Lia, uccisa perché ribelle al patriarcato mafioso, è la storia di tante donne morte in nome di un sogno di libertà”. Finalmente, sul luogo del delitto, un segno tangibile di memoria e impegno ricorda a tutti ciò che avvenne e perché non deve più accadere.
Già nel marzo 2024, in occasione della Giornata internazionale della donna, il coordinamento palermitano di Libera aveva affisso temporaneamente una targa nel medesimo posto, per denunciare il mancato riconoscimento ufficiale di Lia come vittima di mafia e per onorare “la sua voglia di libertà e ribellione”. Quella targa provvisoria è stata rimossa dopo qualche tempo, ma l’azione ha fatto da apripista alla posa della mattonella permanente. Inoltre, i cittadini del quartiere hanno richiesto al Comune l’installazione di una pietra d’inciampo dedicata a Lia, sul modello dei memoriali d’ottone per le vittime, a testimonianza che la sua storia deve restare impressa nel tessuto urbano della città. Il percorso di memoria prosegue dunque, sostenuto da associazioni come Addiopizzo e Millecolori onlus.
Proprio l’associazione Millecolori nel 2018 ha fondato a Palermo un centro antiviolenza a lei dedicato in un bene confiscato alla mafia. Oggi il Centro Antiviolenza “Lia Pipitone” è una realtà attiva da oltre dieci anni, impegnata ad aiutare donne vittime di maltrattamenti a ritrovare libertà e dignità. La sede del centro ha un forte valore simbolico. Si trova in un immobile confiscato a Tommaso Cannella, mafioso legato alla famiglia Pipitone e zio acquisito di Lia. Lì dove prima c’era il potere criminale dei clan, ora c’è uno spazio di speranza e rinascita per donne coraggiose. “Lia è stata vittima di un codice del disonore mafioso, fatto di valori malati, in un tempo in cui la mafia non era neanche riconosciuta come tale”, ha affermato Antonello Cracolici durante una recente visita al centro. “Oggi la sua storia è un simbolo di riscatto da quel patriarcato e a lei è intitolato un centro antiviolenza, perché il ricordo si trasforma in memoria e impegno collettivo”. Nel centro Lia Pipitone si portano avanti progetti innovativi per l’autonomia economica e psicologica delle donne, come laboratori creativi (Empowerment Lab) e iniziative di formazione al lavoro. Ad esempio, nel 2024 sono nati “Le Coffe di Lia”, un atelier sociale dove donne in uscita da situazioni di violenza creano borse artigianali siciliane come percorso di riscatto, e la rete d’imprese RI.Nasci per aiutare queste donne a trovare un’occupazione stabile. In questo modo il nome di Lia continua a vivere in opere concrete a sostegno di altre donne, incarnando i valori di libertà e coraggio per cui lei stessa è morta.
In occasione di ogni anniversario della sua uccisione, Palermo organizza eventi di commemorazione. Nel settembre 2023, per il 40° anniversario, un corteo e un’assemblea pubblica nel quartiere Arenella hanno ricordato Lia Pipitone come “donna, madre e artista uccisa dalla mafia e dal sessismo”, sottolineando come la sua figura anticipasse di decenni le battaglie odierne per i diritti delle donne anche dentro contesti difficili. Le sue amiche dell’epoca, i compagni di scuola, hanno portato le loro testimonianze, ricordandola come “una ragazza solare, piena di sogni e di amore, spezzata dalla barbarie dei suoi stessi familiari”. Tali ricordi personali hanno umanizzato ancora di più la sua storia agli occhi delle nuove generazioni.
Il nome di Lia è ormai un simbolo di memoria attiva. Ogni 23 settembre, davanti alla targa in via Papa Sergio, si ritrovano autorità, cittadini, studenti e attivisti per un momento di riflessione collettiva. Queste iniziative rientrano anche in percorsi come i “Cento passi verso il 21 marzo”, che scandiscono l’avvicinamento alla Giornata nazionale in memoria delle vittime di mafia. Mantenere vivo il ricordo di Lia, sottolineano da Libera e Addiopizzo, significa lottare contro l’indifferenza e l’omertà, e continuare a chiedere giustizia per tutte le donne oppresse dal patriarcato mafioso.
Lia Pipitone oggi rivive come esempio di coraggio e tragico monito. La sua vicenda, a lungo taciuta, racconta di una donna che volle essere libera in un mondo che la voleva prigioniera: una ribelle in famiglia mafiosa. Per questa libertà pagò il prezzo più alto, ma il suo sacrificio non è stato vano. “Era nata per la libertà e per questo Lia è stata uccisa”, recita la sua scheda sul sito di Libera. E proprio quella libertà negata oggi ispira altre donne a non piegarsi. Lia Pipitone, vittima “colpevole” di mafia, è divenuta un simbolo di riscatto – il riscatto di Palermo da una cultura di morte e silenzio, e il riscatto di tutte le figlie che scelgono di non essere più proprietà di nessuno. La sua storia, finalmente emersa dall’ombra, continuerà a ricordarci che nessun “onore” mafioso vale la vita di una figlia. La memoria di Lia è un impegno vivo perché ciò che le è accaduto non succeda mai più.
Roberto Greco








































