Sono sposati da diciotto anni Margherita Giramita, 48 anni, e Daniele Freschi, 52 anni. Hanno tre figli: Simone, 15 anni, Giacomo, 5 anni, e Anita, che, come dice Margherita, “è in Cielo”.
Cara Margherita, tu hai abortito una bambina, Anita, che sarebbe nata con la sindrome di Down. Ci racconti cosa hai vissuto?
La gravidanza di mia figlia Anita (circa dieci anni fa) è stata una gravidanza molto desiderata e scoprire che era affetta dalla sindrome di Down è stato per me e mio marito uno shock. I medici ci hanno subito dato la loro “soluzione”. I giorni che hanno preceduto quella decisione sono stati pieni di opinioni di amici e parenti sul tipo di vita che avrebbe avuto questa bambina, sull’impatto che avrebbe avuto nella vita di mio figlio Simone, sulla nostra vita. Alla fine la decisione spettava a me, anche perché mio marito, pur non dicendolo apertamente, aveva deciso che Anita non sarebbe dovuta nascere: era meglio anche per lei. E così anch’io, la sua mamma, la condannai a morte.
Il mio è stato un aborto terapeutico e questa procedura prevedeva che io stessi tre giorni in ospedale e al termine partorissi mia figlia morta. Posso senza dubbio dire che ho vissuto tre giorni all’inferno. Quel posto era l’inferno, e il tanfo di morte, se chiudo gli occhi, lo sento ancora. Ogni giorno per tre giorni ho visto entrare mamme con i loro bambini in pancia e uscire da lì vuote, vuote della vita che custodivano. Dopo avere ingoiato le tre pillole che poi ho capito avrebbero ucciso Anita, tornata in camera, dopo qualche ora ho sentito il suo ultimo calcio, pieno del dolore che stava provando. Poi non la sentii più. Da quel momento diventai la bara di mia figlia, fino a quando mi indussero il parto e Anita nacque morta. Ma insieme a lei ero morta anch’io: la mia natura di madre era ferita per sempre e nulla sarebbe potuto più essere come prima.
Tornata a casa, passavo le giornate a piangere e a gridare, consapevole che quell’immenso dolore che provavo era anche troppo poco per quello che avevo fatto. Il senso di colpa mi spingeva ogni giorno in un buco sempre più profondo.
Dopo la morte di tua figlia non ti perdonavi. Come è avvenuta la guarigione del tuo cuore?
Navigando su internet ho trovato il sito de La Vigna di Rachele, un apostolato cattolico del post aborto. Loro offrivano un ritiro psico-spirituale di tre giorni, seguito da un accompagnamento di circa un anno. Io e mio marito partecipammo a quei tre giorni, che considero tra i più belli della mia vita.
Durante il ritiro abbiamo pregato, abbiamo chiesto perdono a Dio e a mia figlia, ci siamo confessati. Abbiamo sentito per la prima volta la carezza e l’amore di Dio su di noi e abbiamo scoperto che Anita non ci odiava, ma anzi ci amava immensamente e pregava per noi. Nella mia vita oggi sento molto la presenza di Anita: lei è la nostra via per il Cielo, dove ci aspetta. Io sono una mamma tra cielo e terra. Dopo Anita, circa quattro anni dopo, è arrivato Giacomo, che porta negli occhi un pezzo di cielo.
Ora collabori come volontaria alla Vigna di Rachele per assistere le donne che hanno abortito. Ci spieghi meglio?
Oggi partecipo come membro dell’équipe che offre i ritiri e accompagno — prima, durante e dopo — le donne, gli uomini e chiunque sia stato ferito dall’aborto. L’esperienza della morte di Anita si trasforma così, ogni giorno, in amore, e il suo sacrificio trova un senso.
Riccardo Rossi







































