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Mer, 12 Nov 2025
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Primo Reggiani: «Falcone era un uomo, non un eroe. Raccontarlo è stato un atto d’amore»

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Primo Reggiani interpreta Giovanni Falcone nel film “Francesca e Giovanni” di Ricky Tognazzi e Simona Izzo. Ne viene fuori un ritratto umano e intimo del giudice, tra amore, coraggio e memoria.

C’è un film che restituisce alla memoria collettiva la forza di un sentimento che seppe resistere alla paura, alla solitudine, al dovere. Il film dal titolo “Francesca e Giovanni. Una storia d’amore e di mafia”, diretto da Ricky Tognazzi e Simona Izzo e interpretato da Ester Pantano e Primo Reggiani, è uscito nelle sale lo scorso maggio Un racconto che attraversa il cuore e la coscienza del Paese. Una storia d’amore e di coraggio. Quella tra Giovanni Falcone e Francesca Morvillo.

Una storia che trova la sua verità più profonda non nelle aule dei tribunali o nelle cronache. La trova nell’intimità quotidiana di due persone che scelsero di condividere ogni rischio. A interpretare Falcone è Primo Reggiani, in una delle prove più intense e coraggiose della sua carriera. Noi de laltroparlante l’abbiamo intervistato per voi:

Interpretare Giovanni Falcone significa confrfontarsi con una delle figure più complesse e al tempo stesso luminose della storia italiana. In che modo hai affrontato questa responsabilità e quale approccio hai scelto per restituire la sua forza morale senza cadere nella retorica?

Foto di scena

«Sì, è stato sicuramente il personaggio più importante della mia carriera. All’inizio ero titubante: mi sembrava di non avere la maturità per affrontare un ruolo così grande, così carico di storia e di dolore. Quando sono arrivato all’aeroporto Falcone-Borsellino e ho visto le foto che raccontano la loro vita e la loro morte, ho capito davvero chi stavo andando a interpretare. Ho sentito il peso e l’abbraccio di un’intera città, di una regione che continua a combattere per non dimenticare. Palermo mi ha accolto, mi ha aiutato a superare la paura. Ho conosciuto persone che li avevano vissuti davvero: superstiti della scorta, familiari, amici. È grazie a loro che ho scoperto le fragilità di Falcone, la sua umanità, e ho capito che il modo giusto per raccontarlo non era tenerlo su un piedistallo, ma renderlo terreno, uno di noi.»

Il tuo Falcone è un uomo prima ancora di un simbolo. Come ti sei preparato per entrare nella sua dimensione più intima, quella quotidiana, che il pubblico raramente conosce?

«Con Ester abbiamo fatto un lavoro profondo, di immersione nel quotidiano. Tutto ciò che riguardava il lavoro, il magistrato, lo abbiamo tenuto fuori. Abbiamo cercato l’uomo: il marito, l’amico, il compagno di vita. Falcone era riservato, protettivo, parlava solo con la moglie e con il pool. Abbiamo provato a raccontare questo lato, quello che non si vede, la sua vita semplice, il suo bisogno di normalità. Perché “Francesca e Giovanni” non è un film sul maxiprocesso, ma una storia d’amore tra due persone che hanno sacrificato tutto, anche la propria vita, per amore e per senso dello Stato».

Dietro un’interpretazione così intensa c’è inevitabilmente un grande lavoro di documentazione. Ti sei ispirato a biografie, testimonianze o materiali d’archivio?

«Il film nasce dal libro di Felice Cavallaro. Non ho voluto concentrarmi troppo sull’aspetto professionale, ma sull’emotività, sulla sfera familiare. Ho parlato con le persone che li hanno conosciuti, con chi è sopravvissuto, con i parenti delle vittime. Quelle poche parole che mi hanno detto pesavano tantissimo. Ho capito che chi è rimasto porta addosso una ferita profonda, ma anche una fierezza immensa. Quella stessa fierezza che Falcone aveva nel suo lavoro, nel credere in un’Italia migliore. Palermo mi ha insegnato tanto: è una città complessa, bellissima, piena di contrasti. Mi ha cambiato».

Il film dedica tutto il suo spazio al rapporto tra Giovanni e Francesca. Come hai lavorato insieme a Ester Pantano per restituire la verità emotiva di quella relazione?

Foto di scena

«Con Ester abbiamo costruito una sorta di bolla, una camera stagna in cui eravamo solo noi due. Lei è un’attrice generosa, sempre in cerca della verità, e mi ha aiutato a entrare nella cultura e nella sensibilità siciliana. Avevo paura, da romano, di non essere accettato nel toccare un simbolo così grande, ma Palermo e i siciliani sanno abbracciare. Ester mi ha accompagnato in questo viaggio e insieme abbiamo cercato di raccontare una storia d’amore semplice, fatta di verità e protezione reciproca. C’è una scena, quella alla Addaura quando siamo sott’acqua, che per me racchiude tutto: è come se i due protagonisti vivessero lì, sotto la superficie, protetti dal mondo».

Un ruolo come quello di Falcone genera inevitabilmente una traccia. Cosa ti ha lasciato e cosa pensi possa ancora insegnarci la sua storia?

«Io ho una visione un po’ amara: la storia di Falcone racconta un Paese che non sempre ha funzionato. Ma poi, quando sono andato nella chiesa di San Domenico, dove lui è sepolto, ho visto lettere e biglietti scritti da bambini negli anni. Gli scrivono come si fa ad un amico, come se fosse ancora vivo. In quel momento ho capito che la sua eredità è viva. Che non è stata dimenticata. E allora ho pensato che forse, sì, qualcosa funziona ancora. Forse la memoria, in questo Paese, sa resistere. E se questo film potrà contribuire a mantenerla viva, allora ne sarà valsa la pena».

Il silenzio che rimane dopo Giovanni e Francesca è quello di una città che continua a portare fiori sotto le lapidi e parole nei cuori. La voce dei bambini che scrivono ancora “Dottor Falcone, lei è con noi” è un segno di rinascita e speranza.

Oggi ogni parola, ogni manifestazione, ogni film rappresentano il respiro di una Sicilia che sa piangere, ma anche rinascere, trasformando il dolore in memoria e la memoria in speranza.

Federica Dolce

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