Rosario Angelo Livatino è passato alla storia come un magistrato simbolo della lotta alla mafia e della fedeltà ai propri principi etici e religiosi. Nato a Canicattì in provincia di Agrigento, fu assassinato il 21 settembre 1990 a soli 37 anni, in un agguato mafioso ordito dall’organizzazione criminale nota come Stidda. La sua figura continua a ispirare per l’integrità morale, la profonda fede cattolica e l’impegno coraggioso contro la criminalità organizzata, qualità che gli sono valse riconoscimenti postumi straordinari, tra cui la beatificazione nel 2021 come primo magistrato beato nella storia della Chiesa.
Una vita tra fede e diritto
Rosario Livatino nacque il 3 ottobre 1952 a Canicattì, figlio unico di Vincenzo (impiegato all’esattoria comunale) e Rosalia Corbo. Fin da giovane mostrò una spiccata serietà e senso del dovere. Dopo gli studi al liceo classico “Ugo Foscolo” di Canicattì, dove aderì all’Azione Cattolica, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1975. Superò brillantemente il concorso in magistratura, entrando in servizio nel luglio 1978 a soli 26 anni. Nel suo diario, il primo giorno da magistrato, annotò con emozione: “Oggi ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura”, aggiungendo a matita: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione ricevuta esige”. Questa preghiera privata rivela la profonda fede di Livatino, che avrebbe sempre considerato il proprio lavoro come una missione sotto lo “Sub Tutela Dei” – sigla che segnava in ogni sua agenda, a indicare “sotto la protezione di Dio”.
Nel 1979 Rosario divenne sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento, incarico che mantenne per un decennio. Sin dall’inizio si dedicò con scrupolo non solo alle indagini antimafia, ma anche a casi di corruzione e malaffare. Fu tra i primi magistrati in Sicilia a utilizzare lo strumento della sequestra e confisca dei beni ai mafiosi, applicando con fermezza la nuova legge Rognoni-La Torre. Nei primi anni ’80 indagò su un vasto giro di tangenti e fatture false nel settore degli appalti pubblici siciliani, toccando potenti imprenditori e politici locali. Il suo lavoro contribuì a far emergere quella che poi esploderà come “Tangentopoli siciliana”, uno scandalo di corruzione isolana parallelo a quello nazionale.
Uomo di poche parole e di sostanza, Livatino univa alla competenza giuridica un profondo senso etico. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale ad Agrigento, si recava a messa nella chiesa di San Giuseppe; sulla scrivania teneva affiancati il Codice e il Vangelo.. Era noto per il rispetto con cui trattava tutti: si alzava in piedi stringendo la mano persino agli imputati, “anche quelli macchiatisi dei delitti più gravi”, perché per lui “erano innanzitutto persone”... Capace di gesti di grande umanità, andava a pregare accanto alle salme dei mafiosi uccisi e non esitò, in un rovente Ferragosto, a portare di persona in carcere un ordine di scarcerazione per liberare immediatamente un detenuto che ne aveva diritto.. “La libertà dell’individuo deve prevalere su ogni cosa”, spiegò a chi si stupiva della sua sollecitudine.. Coerente con questi principi, annotò in una delle sue agende la frase destinata a diventare il suo motto spirituale: “””Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Per Livatino la fede doveva tradursi in credibilità e giustizia concreta; la sua incorruttibilità derivava proprio dall’essere un cattolico praticante, come notarono persino i malviventi suoi avversari.
Nel 1987 Livatino contribuì, insieme ad altri colleghi, Salvatore Cardinale, Roberto Saieva e il giudice istruttore Fabio Salamone, alla celebrazione del maxiprocesso di Agrigento, il primo grande processo contro le cosche agrigentine. Quell’iter giudiziario – frutto di lunghe inchieste coordinate dal procuratore Elio Spallita e svolte in stretta collaborazione anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – si concluse con 40 condanne per boss e gregari di Agrigento, Canicattì, Porto Empedocle e altri centri infestati da Cosa Nostra. In quei mesi, Livatino si trovò persino a interrogare politici di spicco (come l’on. Calogero Mannino) sui loro legami con i clan locali. La Guerra di mafia infuriava nell’agrigentino tra la vecchia Cosa Nostra e la nascente Stidda, seminando centinaia di morti.. Livatino, con schiena dritta e tenacia, continuò a scoperchiare connivenze fra mafia, imprenditoria e politica a livello locale e nazionale., indagando perfino su reati ambientali quando ancora non si parlava di ecomafie.
Nel 1989, dopo dieci anni alla Procura, passò al ruolo di giudice a latere presso il Tribunale. In questa veste si occupò di misure di prevenzione e dell’assegnazione dei beni confiscati ai mafiosi, dimostrandosi abilissimo nell’applicare concretamente la legge per sottrarre risorse ai clan.. Non esitò a colpire gli interessi dei boss della sua stessa città: terreni e immobili sequestrati ai mafiosi di Canicattì furono poi riutilizzati a fini sociali, ad esempio da cooperative che oggi portano il suo nome.. Questo zelo e coraggio lo resero un bersaglio sempre più scomodo per le cosche. Livatino era perfettamente consapevole dei rischi che correva: in un appunto cupo confidò di vedere “nero” nel proprio futuro, chiedendo perdono a Dio e protezione per i suoi genitori, ai quali era profondamente legato.. Scelse tuttavia di non sposarsi e di non avere scorta, sia per carattere schivo sia per non mettere a repentaglio altre vite innocenti: “Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare a causa mia”, ripeteva. Anzi, in Procura spesso chiedeva al capo di assegnare a lui i fascicoli più pericolosi, per risparmiare i colleghi che avevano moglie e figli.. Si muoveva dunque da solo, alla guida della sua modesta Ford Fiesta amaranto, un’utilitaria facilmente riconoscibile. La sua unica vera protezione restava la fede: quelle tre lettere “S.T.D.” scritte su ogni agenda testimoniavano l’affidamento quotidiano “sotto la tutela di Dio” fino all’ultimo giorno..
L’agguato mafioso del 21 settembre 1990
La mattina di venerdì 21 settembre 1990 Rosario Livatino percorreva come d’abitudine la strada statale 640 da Canicattì verso il Tribunale di Agrigento, senza scorta e senza auto blindata. Verso le ore 8, all’altezza del viadotto Gasena, la sua vettura fu affiancata e speronata da un commando di killer della Stidda, feroci rivali di Cosa Nostra nella zona. L’auto di Livatino finì contro il guard-rail, costringendolo a fermarsi. Sebbene ferito da un colpo di arma da fuoco alla spalla, il giudice tentò disperatamente di fuggire a piedi attraverso la campagna circostante. I sicari però non gli diedero scampo: lo inseguirono giù per la scarpata sotto la strada e, dopo poche decine di metri, lo raggiunsero. Rosario fu finito con numerosi colpi di pistola, almeno sette proiettili., l’ultimo esploso in pieno volto quasi a voler significare che “doveva tacere per sempre”. Il corpo del magistrato rimase disteso tra gli arbusti, il viso insanguinato rivolto al cielo. Si racconta che in quegli attimi egli abbia rivolto ai suoi assassini parole di straziante innocenza: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, avrebbe detto mentre i killer gli erano addosso. Una frase semplice che evidenzia tutta la sua estraneità a logiche di odio e vendetta, quasi una supplica umana rivolta a chi lo stava giustiziando.
L’agguato fu particolarmente efferato e destò enorme impressione nell’opinione pubblica. Rosario Livatino moriva così a 37 anni martire della giustizia, pagando con la vita il suo impegno incorruttibile contro la mafia e le collusioni politico-criminali. Soltanto la sera prima aveva lavorato fino a tardi sui suoi fascicoli, ignaro che i clan – stiddari e uomini di Cosa Nostra alleatisi per eliminarlo – avessero deciso di eseguire proprio quel giorno la condanna a morte che pendeva su di lui.. I primi a giungere sul luogo del delitto, tra le sterpaglie sotto il viadotto, furono alcuni colleghi e superiori di Rosario: il presidente del tribunale Salvatore Bisulca, il procuratore di Agrigento Giuseppe Vaiola e gli amici magistrati Roberto Saieva e Fabio Salamone. Accorsero subito anche alti esponenti della lotta antimafia come Giovanni Falcone, allora procuratore aggiunto a Palermo, e Paolo Borsellino, procuratore a Marsala, insieme al procuratore Pietro Giammanco e allo stesso Elio Spallita. La scena che si presentò ai loro occhi, il corpo di quel giovane giudice riverso in un torrente in secca, coperto da un lenzuolo bianco sollevato dal vento, apparve a molti come la tragica rappresentazione della sconfitta dello Stato di fronte alla violenza mafiosa, come scrisse con toni accorati il cronista Attilio Bolzoni.
Le esequie di Rosario Livatino si svolsero con grande partecipazione emotiva. L’Italia intera fu scossa: un servitore dello Stato mite e onesto veniva ammazzato barbaramente, senza nemmeno una scorta di protezione. Rosario fu sepolto nel cimitero di Canicattì accanto ai suoi cari. Solo molti anni dopo, nel marzo 2025, le sue spoglie saranno traslate nella chiesa di Santa Chiara della sua città natale per permettere ai fedeli di onorarne la memoria in un luogo sacro.
L’indagine lampo e i processi ai killer
Paradossalmente, a permettere una rapida identificazione dei killer fu un evento fortuito: in quel drammatico 21 settembre 1990, un testimone oculare assistette per caso all’agguato. Si trattava di Piero Nava, un agente di commercio di passaggio in auto, che vide la scena e trovò il coraggio civile di denunciare tutto alla polizia. Grazie alla dettagliata testimonianza di Nava, che poi, per sicurezza, dovette entrare in un programma di protezione con una nuova identità che dura ancora oggi, le indagini presero subito una pista precisa. Nel giro di appena due settimane dal delitto, il 7 ottobre 1990, gli investigatori dello SCO, il Servizio Centrale Operativo della Polizia, guidati da Gianni De Gennaro, in collaborazione con la polizia tedesca individuarono in Germania due sospettati chiave. Paolo Amico e Domenico Pace, entrambi 23enni affiliati alla Stidda di Palma di Montechiaro e da tempo emigrati in Germania come copertura, facevano i pizzaioli, vennero arrestati nei pressi di Colonia. Erano i primi due membri del commando di sicari responsabili dell’omicidio.
L’arresto di Amico e Pace condusse al primo processo sull’omicidio di Livatino, denominato “Livatino uno”, iniziato nel novembre 1991. Durante il dibattimento emersero ulteriori elementi grazie alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia. In particolare Gioacchino Schembri, un altro stiddaro di Palma d.M. rifugiato in Germania, iniziò a collaborare nel 1992 con il giudice Paolo Borsellino, rivelando i nomi di altri complici e confermando il ruolo di Amico e Pace nella cellula di fuoco. Sulla base di prove e testimonianze schiaccianti, il 18 novembre 1992 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Amico e Pace all’ergastolo quali esecutori materiali dell’assassinio. Le condanne furono poi confermate in appello e Cassazione, diventando definitive.
Nel 1993 le indagini si allargarono agli altri componenti del gruppo di fuoco. Su indicazione del pentito Schembri vennero individuati e arrestati Gaetano Puzzangaro, 23 anni, detto “la mosca”, Giovanni Avarello e Giuseppe Croce Benvenuto, rispettivamente 28 e 23 anni, tutti affiliati alla Stidda tra Palma di Montechiaro e Canicattì. Anche Croce Benvenuto decise di collaborare, fornendo nuovi particolari sull’omicidio. Scattarono così provvedimenti cautelari e un secondo procedimento, “Livatino bis”, che nel 1995 portò a sentenza di primo grado: la Corte d’Assise condannò Puzzangaro e Avarello all’ergastolo, mentre per Amico e Pace – già ergastolani – arrivò una pena minore per reati connessi, detenzione di armi. Anche queste condanne furono confermate nei successivi gradi di giudizio.
Un terzo filone, “Livatino ter”, si aprì nel 1997 per inchiodare i mandanti del delitto. Grazie alle confessioni dei pentiti Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, furono portati a processo alcuni boss ritenuti gli organizzatori dell’agguato: Antonio Gallea, Salvatore Calafato, fratello di Giovanni, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, capi delle “Stidde” locali. Secondo l’accusa, costoro avevano deciso di eliminare Livatino ritenendolo – a torto – vicino a un loro nemico, il boss di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, e comunque ostile alle attività della Stidda, che il giudice contrastava applicando misure di prevenzione e infliggendo dure condanne. Nel 1998 la Corte d’Assise riconobbe colpevoli alcuni di questi mandanti: Gallea fu condannato all’ergastolo e Salvatore Calafato a 24 anni; ai due collaboratori, Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, furono comminate pene ridotte (18 e 16 anni) per via della collaborazione, mentre Parla e Montanti inizialmente vennero assolti. Il caso però non era chiuso: nel 1999 la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta ribaltò quelle assoluzioni, infliggendo ergastoli anche a Parla e Montanti, oltre a confermare quello per Gallea ed elevare a ergastolo la pena di Salvatore Calafato. In Cassazione, nel 2001, le condanne all’ergastolo per Gallea e S. Calafato furono confermate definitivamente, e l’anno successivo divennero definitive anche quelle per Montanti e Parla. Si concluse così, oltre un decennio dopo i fatti, l’iter giudiziario per l’omicidio Livatino: tutti i responsabili, mandanti ed esecutori, erano stati assicurati alla giustizia con il massimo della pena. Emblematica la motivazione emersa dai processi: Rosario Livatino era stato ucciso “a causa del suo impegno pervicace nel conseguire un ideale di giustizia” libero da logiche di potere o compromesso. In altri termini, la mafia lo odiava e temeva perché incarnava il magistrato integerrimo, “dalla schiena dritta”, che non poteva essere né comprato né intimidito.
Tra i killer condannati, Gaetano Puzzangaro negli anni seguenti mostrò segni di pentimento. In carcere si è convertito e ha voluto rendere testimonianza nel processo di beatificazione di Livatino... Intervistato dal postulatore, Puzzangaro avrebbe ricordato proprio le ultime parole del giudice morente riconoscendo la nobiltà di quella vittima innocente.. Il fatto che uno dei suoi assassini si sia ritrovato a collaborare alla causa di beatificazione è un segno potente dell’eredità morale lasciata da Livatino.
Reazioni, polemiche e memoria collettiva
L’assassinio di Rosario Livatino provocò immediatamente sdegno ma anche denunce contro le carenze dello Stato. Nei giorni successivi, i colleghi più vicini a Rosario – Roberto Saieva e Fabio Salamone – denunciarono lo “stato di abbandono” in cui versavano i magistrati antimafia in Sicilia, spesso privi di protezione e costretti a lavorare in condizioni difficili. Tutti i rappresentanti delle Procure siciliane si riunirono ad Agrigento per commemorare il giovane giudice ucciso, all’incontro partecipò anche Paolo Borsellino, minacciando clamorosamente dimissioni di massa dalla magistratura se lo Stato non avesse preso provvedimenti contro la mattanza di servitori dello Stato in corso. Le loro proteste sottolineavano l’inerzia colpevole delle istituzioni di fronte alle continue uccisioni di giudici e forze dell’ordine per mano mafiosa.
In quel clima arroventato, otto mesi dopo il delitto, il 10 maggio 1991 arrivò un’uscita destinata a far discutere: l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, parlando dei giovani magistrati impegnati contro la mafia, li definì polemicamente “giudici ragazzini”. Cossiga espresse l’idea che non si potesse lasciare la conduzione di indagini complesse contro Cosa Nostra a “ogni ragazzino che ha vinto il concorso”, giudicandoli troppo inesperti e supponenti. Arrivò a dichiarare: “A questo ragazzino non affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena…”. L’infelice frase fu percepita come un attacco postumo proprio a Rosario Livatino, che in quel momento era il simbolo del giovane magistrato caduto. L’opinione pubblica insorse contro quelle parole, giudicate offensive verso la memoria del giudice ucciso. Dodici anni dopo, nel 2002, lo stesso Cossiga scrisse una lettera aperta ai genitori di Rosario, che fu pubblicata sul Giornale di Sicilia, per negare di essersi riferito a lui con quel termine dispregiativo e anzi definendolo un “eroe” e un “santo” del nostro tempo. Ma ormai il soprannome “giudice ragazzino” era entrato nel linguaggio comune legato alla figura di Livatino, sebbene originato da un equivoco, e venne trasformato in emblema positivo della sua giovinezza e abnegazione. Già nel 1992 il sociologo Nando dalla Chiesa dedicò a Rosario un libro intitolato “Il giudice ragazzino”, da cui fu poi tratto nel 1994 un omonimo film per la regia di Alessandro Di Robilant, con l’attore Giulio Scarpati nei panni di Livatino.. L’opera contribuì a diffondere al grande pubblico la storia esemplare di questo giovane magistrato “di frontiera”, isolato in un contesto difficile ma tenace nel suo dovere. Per quella interpretazione, Scarpati vinse anche il David di Donatello, ulteriore segno di quanto la vicenda avesse colpito l’immaginario nazionale.
Nei decenni successivi la figura di Rosario Livatino è stata onorata in molti modi. Il 20 settembre 1994, quattro anni dopo l’omicidio, i suoi genitori fecero erigere una stele commemorativa lungo la SS 640, vicino al punto in cui fu assassinato, con la scritta: “A Rosario Livatino, martire della giustizia”. Questa denominazione riecheggia proprio le parole pronunciate da Papa Giovanni Paolo II nel maggio 1993 ad Agrigento: durante la sua storica visita nella Valle dei Templi, Wojtyła incontrò i genitori di Rosario, si commosse con loro e definì il figlio “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Nella stessa occasione, il Papa scagliò il celebre anatema contro la mafia“Convertitevi, verrà un giorno il giudizio di Dio!”, gridando dal cuore la sua condanna ai mafiosi i n nome di Cristo. Quelle parole risuonate ad Agrigento fecero epoca e furono ispirate anche dal sacrificio di Livatino e di altri martiri della legalità come il giudice Antonino Saetta, anch’egli ucciso in provincia di Agrigento nel 1988. Anni dopo, nel 2017, la stele eretta in memoria di Rosario fu vigliaccamente danneggiata da ignoti vandali, gesto che suscitò indignazione ma confermò quanto la testimonianza del “giudice giusto” fosse ancora scomoda per la cultura mafiosa persistente La stele è stata successivamente restaurata e tuttora segna il luogo dell’eccidio, invitando i passanti a ricordare quel sacrificio.
Molte altre sono le intitolazioni e onorificenze dedicate a Livatino. Nel 2016 un nuovo viadotto della SS 640, denominata oggi la “Strada degli Scrittori”, è stato battezzato “Viadotto Giudice Livatino”, proprio nei pressi del teatro dell’agguato. Scuole, vie e piazze in tutta Italia portano il suo nome a memoria perenne. Lo Stato italiano ha riconosciuto il sacrificio di Rosario concedendo ai familiari i benefici previsti per le vittime di mafia e terrorismo. Nel 2018 Poste Italiane gli ha dedicato persino un francobollo commemorativo, definendolo “Simbolo di giustizia e fede”.
La sua vicenda, oltre al libro e al film citati, è stata raccontata in vari documentari, “Luce verticale. Rosario Livatino, il martirio” del 2007, “Il giudice di Canicattì, il coraggio e la tenacia” del 2016 e innumerevoli articoli e saggi. Ogni anno, in occasione dell’anniversario del 21 settembre, si tengono cerimonie di ricordo ad Agrigento e Canicattì, con la partecipazione di istituzioni, forze dell’ordine, studenti e cittadini comuni che vedono in lui un esempio limpido di servitore dello Stato. Nel 2020, per il trentennale della morte, la RAI gli ha dedicato ampi spazi in programmi TV, speciali e telegiornali, sottolineando come la sua lezione sia ancora viva. “Deontologia e professionalità del magistrato: un binomio indissolubile. In memoria di Rosario Livatino” era il titolo emblematico di un convegno tenutosi a Palermo in quel frangente.
Dalla fede alla beatificazione: il giudice diventato Beato
Rosario Livatino non era solo un magistrato coraggioso, ma anche un cristiano autentico, convinto che fede e giustizia dovessero procedere insieme. “Rendere giustizia è preghiera, è dedizione di sé a Dio”, affermava in uno dei suoi appunti, sintetizzando mirabilmente la sua visione del ruolo del giudice. Proprio questo intreccio tra Vangelo e Costituzione ha portato la Chiesa cattolica a riconoscere in lui un modello di virtù eroiche laicali. Già nel settembre 1993, a tre anni dalla morte, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro incaricò una commissione di raccogliere testimonianze sulla sua vita in vista di un possibile avvio della causa di beatificazione. In quell’occasione, e nei molti anni seguenti, emerse con chiarezza come Livatino vivesse la professione giudiziaria come autentica vocazione cristiana. Quarantacinque testimoni, tra cui colleghi magistrati, amici, e Gaetano Puzzangaro, un suo assassino pentito deposero al processo diocesano sulla “fama di santità” del giudice.
Dalla raccolta di migliaia di pagine di documenti e testimonianze venne fuori il ritratto di un uomo che praticava quotidianamente la carità e il perdono. Colpì, ad esempio, l’aneddoto riferito in sede diocesana secondo cui Rosario, di fronte ai cadaveri di criminali uccisi, diceva: “Chi crede prega, chi non crede tace”, invitando comunque al rispetto per la dignità di ogni vita umana. Si apprese inoltre che i mafiosi stessi lo avevano soprannominato con disprezzo “santocchio”, bigotto, per via della sua assidua pratica religiosa, segno che proprio la sua fede dava fastidio alle cosche, rendendolo “inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione”. Addirittura, emerse che i mandanti avrebbero inizialmente voluto assassinarlo davanti alla chiesa che frequentava, quasi a volere uno sfregio sacrilego, particolare che rafforza la lettura del delitto in chiave anti-religiosa.. Questi ed altri elementi hanno portato la Chiesa a considerare Rosario Livatino un martire “in odium fidei”, ossia ucciso in odio alla fede cristiana incarnata nei suoi valori di giustizia.
Il processo di beatificazione ufficiale si aprì il 21 settembre 2011 – nel giorno esatto del ventunesimo anniversario della morte – presso la Chiesa di San Domenico a Canicattì. Nel 2018 si chiuse la fase diocesana e tutto il materiale fu trasmesso a Roma, alla Congregazione delle Cause dei Santi. Finalmente, il 21 dicembre 2020, Papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto che riconosceva il martirio di Rosario Livatino “in odium fidei”, spianando la strada alla beatificazione. Il decreto vaticano citava espressamente il disprezzo manifestato dai mafiosi verso la religiosità di Rosario, il famoso epiteto “santocchio” usato dal boss Di Caro, come prova del movente d’odio di stampo anti-cristiano.
La cerimonia di beatificazione si è svolta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento, in una data altamente simbolica: esattamente 28 anni prima, il 9 maggio 1993, Giovanni Paolo II aveva lanciato proprio da Agrigento il suo grido contro la mafia e incontrato i genitori di Rosario. A presiedere il rito è stato il cardinale Marcello Semeraro, prefetto delle Cause dei Santi, in rappresentanza del Papa. Sull’altare campeggiava la foto sorridente del giudice e una sua reliquia toccante: la camicia che indossava il giorno dell’omicidio, ancora intrisa del suo sangue, esposta in una teca come testimonianza del sacrificio. Nell’omelia, il cardinal Semeraro ha sottolineato come Rosario fosse morto perdonando i suoi uccisori, evidenziando la straordinarietà del suo perdono cristiano di fronte alla barbarie mafiosa. Papa Francesco, affacciandosi quel giorno al Regina Coeli, lo additò come “martire della giustizia e della fede” e invitò tutti a raccoglierne l’esempio di rettitudine e mitezza evangelica. Da allora Beato Rosario Livatino viene celebrato ogni 29 ottobre nel calendario liturgico. La data non fu scelta non a caso perchè il 29 ottobre 1988, a 36 anni, Livatino aveva ricevuto il sacramento della Confermazione, suggello del suo consapevole cammino di fede da adulto.
Con Rosario Livatino per la prima volta la Chiesa proclama Beato un magistrato in quanto tale. La sua vicenda terrena, un giovane giudice ucciso “perché aveva fame e sete di giustizia”, acquista così anche un’aura spirituale universale. La sua figura è diventata quella di un martire contemporaneo, modello per credenti e non credenti: esempio di laico che mise i propri talenti professionali al servizio del bene comune, fino al dono supremo della vita. La lezione di Livatino insegna che legalità e Vangelo possono illuminarsi a vicenda. Come ha osservato il postulatore mons. Vincenzo Bertolone, Rosario “incarnava, nella sua professione, il suo ideale di fede e di giustizia” – cosa intollerabile per le mafie, che venerano solo il potere e disprezzano gli uomini di fede integri. Nel martirio di Livatino la Chiesa vede realizzato il Vangelo delle Beatitudini: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”.
A distanza di oltre trent’anni dalla sua morte, Rosario Livatino continua a parlare alle coscienze. La Casa Museo Livatino a Canicattì, la sua abitazione natale mantenuta intatta, e il Centro Studi che porta il suo nome ne tengono viva la memoria, specialmente tra i giovani magistrati e gli studenti. Le sue agende personali, gelosamente conservate, mostrano scarne annotazioni ma anche profondi richiami spirituali che impressionano per lucidità e coerenza. Sfogliandole si trova quella sigla “S.T.D.” ripetuta e, qua e là, massime come questa: “Il ruolo del giudice è quello di decidere; ma decidere è scegliere… e scegliere è forse la cosa più difficile”. Livatino era pienamente consapevole della responsabilità morale del giudicare, tanto da scrivere: “Il giudice, anche quando condanna, non può odiare l’imputato”. Parole che oggi suonano come un monito di umanità.
Il percorso di Rosario Livatino, da giovane servitore dello Stato ad eroe civile e infine a Beato della Chiesa, è una storia tutta italiana di coraggio e rettitudine in tempi oscuri. La sua breve vita – “breve ma intensa”, come l’ha definita Avvenire. – testimonia che integrità, fede e senso delle istituzioni possono trionfare sull’odio, ispirando cambiamento. Come ha scritto un commentatore, forse Rosario avrebbe preferito continuare la sua missione in silenzio piuttosto che essere portato agli onori degli altari. Ma il fatto che Chiesa e Repubblica oggi lo celebrino insieme come modello di virtù laica e cristiana conferma la potenza straordinaria della sua testimonianza. Rosario Livatino resta il “piccolo giudice” che, con la fionda di Davide della Giustizia, tenne testa al gigante Golia della mafia. E il suo sangue versato, per citare le parole usate da monsignor Bertolone, è diventato seme di cambiamento, trasformazione e rinascita.
Roberto Greco








































