Dalle missioni nei Balcani ai poligoni nazionali: una lunga battaglia per il riconoscimento delle malattie da uranio impoverito
Continuando a cercare il buono che c’è, tra tanti problemi che attanagliano la nostra comunità, ci siamo imbattuti in una vicenda che da anni non trova il suo giusto epilogo. Una brutta storia, come altre che riguardano servitori dello Stato. In questo caso si tratta di migliaia di cittadini che hanno servito nelle nostre Forze Armate, nei campi di battaglia, intervenendo in missioni di pace. È difficile trovare il buono che c’è in una vicenda che conta centinaia di morti e migliaia di ammalati ancora in attesa di giustizia e verità. Da oggi apriamo un nuovo capitolo dei nostri approfondimenti e vi raccontiamo la storia dei militari italiani morti o gravemente ammalati che reclamano verità circa le cause che addebitano ai munizionamenti con uranio impoverito. Il buono che c’è lo abbiamo trovato in chi da anni combatte battaglie nei tribunali e negli ospedali, nelle famiglie che diventano il supporto principale di tanti militari, e nei militari stessi che hanno saputo lottare contro quello che sembra essere stato, ed ancora oggi probabilmente lo è, una forte resistenza istituzionale, secondo quanto emerge da atti parlamentari.
Ma partiamo dall’inizio. Quando si parla di uranio impoverito si intende il sottoprodotto, ossia lo scarto, radioattivo del processo di arricchimento dell’uranio 235 che viene utilizzato nelle centrali nucleari. È meno radioattivo dell’uranio naturale, ma molto pericoloso per la salute umana e l’ambiente. Ma allora perché applicarlo nel campo militare? In sintesi, il DU (dall’inglese Depleted Uranium, appunto Uranio Impoverito) è molto efficace per alcuni usi specifici militari come munizioni perforanti incendiarie in ragione della sua alta densità ed al basso costo, in quanto scarto di lavorazioni diverse. Ma trova applicazione anche in campo civile come, ad esempio, nelle schermature da raggi gamma ed in applicazione che richiedono materiali densi e compatti. In campo militare viene infatti applicato nella produzione di munizioni anticarro grazie alla sua densità, quindi alla capacità perforante, e a quella, nel momento dell’impatto, di sviluppare una grande quantità di calore tale da perforare le corazze dei carri armati ed esplodere al loro interno producendo un tale calore da uccidere chiunque si trovi dentro al mezzo blindato. Il problema principale nasce dai residui provenienti dall’uso di queste munizioni. Dopo l’uso vengono infatti disperse, nell’ambiente circostante, polveri sottili che possono creare danni sia per contatto sia per inalazione. Altro aspetto rilevante è il danno ambientale che l’uso di queste munizioni causa.
Tracciamo adesso una linea temporale per comprendere quando inizia l’uso di munizioni DU e dove, così da delimitare un perimetro spazio-temporale che coinvolge le nostre Forze armate.

Tra la fine degli anni ’90 e i primi Duemila, migliaia di militari italiani impiegati nei teatri operativi dei Balcani (1994-95), dell’Iraq e dell’Afghanistan (2003-14) si sono ammalati di gravi patologie tumorali. Il sospetto – oggi supportato da sentenze passate in giudicato e da documenti ufficiali – è che l’esposizione a uranio impoverito e nanoparticelle di metalli pesanti abbia avuto un ruolo determinante. Per dare una dimensione della quantità di materiali usati, basta pensare che nel complesso dei campi di battaglia furono sparati decine e decine di migliaia di proiettili con DU. Già la Commissione parlamentare d’inchiesta del Senato (relazione conclusiva 2004-2006) aveva evidenziato «gravi carenze di informazione e prevenzione» e richiesto uno screening sanitario permanente per il personale militare. Le raccomandazioni rimasero però in larga parte inascoltate.
Chi sapeva e quando
Una delle questioni più delicate è stabilire se l’Italia sapesse dell’uso di proiettili all’uranio impoverito (DU) nei Balcani e non informò i propri militari, oppure ne venne a conoscenza solo tardivamente. Le carte ufficiali permettono oggi una ricostruzione, ma complessa.
1º luglio 1999 – lo SHAPE, quartier generale della NATO, diffonde ai Paesi membri linee guida di sicurezza relative al rischio da DU. Le istruzioni invitano a evitare contatto diretto con residui di munizionamento e a bonificare i siti contaminati. L’informazione, dunque, era disponibile nei canali militari alleati, anche se non accompagnata da mappe dettagliate.
22 marzo 2000 – la NATO comunica alle Nazioni Unite l’uso di proiettili DU in Kosovo durante la campagna aerea del 1999. L’UNEP conduce una missione sul campo nel novembre 2000 e pubblica il suo rapporto nel marzo 2001, raccomandando misure precauzionali immediate. Per il teatro del Kosovo, dunque, l’informazione è nota già nel 2000-2001, e l’Italia ne è destinataria come membro dell’Alleanza.
Dicembre 2000 – la NATO, su sollecitazione del Governo italiano, ammette per la prima volta l’uso di DU in Bosnia nel 1994-1995, con circa 10.800 colpi impiegati. Fino a quel momento i comandi italiani avevano escluso tale eventualità. L’ammissione ufficiale segna la fine di un “vuoto informativo” di oltre cinque anni. Le missioni UNEP successive (2002-2003) confermeranno la presenza di contaminazioni residue in alcuni siti.
Da questa cronologia si deduce che l’Italia fu informata tardivamente sull’uso in Bosnia, mentre era a conoscenza del rischio generale e dei protocolli di precauzione già dal 1999. Nel caso del Kosovo, invece, aveva elementi sufficienti per predisporre misure di protezione dal 2000 in poi. Così come testimonia pubblicamente anche un colonnello delle nostre Forze Armate, che oggi porta addosso i segni della malattia e la forza di andare avanti nelle battaglie per verità e giustizia, anche per chi non ce l’ha fatta.

Le responsabilità
I documenti non consentono di identificare una “percentuale” di responsabilità puntuale. Secondo le ricostruzioni apparse negli atti, le testimonianze raccolte, potrebbero essere stati coinvolti:
NATO / SHAPE – ritardo nella comunicazione formale ai Paesi membri, in particolare per la Bosnia. Solo a fine 2000 vengono trasmessi i dati di tiro e le mappe dei siti colpiti. Ciò ha limitato la capacità dei singoli Stati di intervenire in tempo utile.
Stati Uniti – forze che hanno materialmente utilizzato munizionamento DU, con responsabilità primaria nella registrazione e trasmissione dei dati balistici alla NATO.
Italia – obbligo nazionale di informare e proteggere i propri contingenti non appena ricevute le direttive generali (dal 1999) e le informazioni specifiche (dal 2000). Le inchieste parlamentari e le sentenze successive hanno accertato ritardi significativi nella diffusione delle informazioni ai militari e nell’attivazione di programmi di sorveglianza sanitaria.
In sintesi, per la Bosnia il ritardo è attribuibile principalmente alla catena NATO, mentre per il Kosovo e i periodi successivi la mancata tempestiva applicazione di misure protettive ricade anche sull’Italia.
Le omissioni e le testimonianze
Negli atti parlamentari del 2000-2001, relativi al periodo in cui Sergio Mattarella era Ministro della Difesa, pur trovandosi richieste di chiarimenti alla NATO, le promesse di trasparenza non sembra siano mai state pienamente attuate. Intanto, i reparti rientrati dai Balcani riferivano casi di malattia. Mai correlati ufficialmente all’esposizione sul campo.
Sono diversi i militari raccontano di essere partiti «senza alcuna consapevolezza del rischio». Dalle interviste fatte, sulle quali manteniamo l’anonimato, è stato ricordato come i militari: «Camminavano su terreni che sapevamo contaminati, ma nessuno ci diede maschere o tute. Quando tornarono i primi malati, si disse che era una coincidenza.»
Un legale che da anni assiste le famiglie delle vittime parla di “una catena di silenzi e rinvii”, e di “un’inerzia amministrativa che ha reso la giustizia un percorso di resistenza civile”. Dalle interviste riservate, pur non pubblicabili integralmente, emerge con particolare incisività la dimensione umana di questa vicenda: dolore, frustrazione e la sensazione di essere stati sacrificati in nome di un segreto militare mai del tutto ammesso.
Nel nostro viaggio alla ricerca della verità abbiamo ascoltato diverse storie che non coinvolgono solo i militari ma anche le loro famiglie. Storie di giovani, in gran parte, che al tempo delle missioni avevano 20 anni o poco più. Oggi sono uomini maturi che convivono con malattie terribili, coinvolgendo inevitabilmente i familiari. Emerge un quadro di grande sofferenza data non solo dalla malattia, ma anche dal silenzio e talvolta, come emerge dalle storie che abbiamo ascoltato, anche dalla sensazione di abbandono o, peggio, di ostruzionismo sotto diverse forme da parte delle istituzioni preposte al supporto e direttamente o indirettamente responsabili. Quest’ultimo è certamente l’aspetto che più sconvolge in una vicenda già complessa e dolorosa per la nazione.
La svolta giudiziaria
Dal 2015 in poi, la magistratura ha progressivamente scardinato il muro di negazioni. Le sentenze del TAR Sicilia (2018), del TAR Lazio (2022) e del Tribunale del Lavoro di Palermo (2023) hanno contribuito a stabilire che non serve la certezza assoluta del nesso causale: è sufficiente una dimostrazione probabilistica supportata da evidenze mediche e scientifiche.
Nel 2023, il Tribunale di Palermo ha condannato tre ministeri. Altre sentenze si sono aggiunte in seguito, nel 2025. In sintesi, in base alle istanze, vengono riconosciuti ai congiunti superstiti i benefici destinati alle vittime del dovere, ed ai militari ammalati i benefici economici e assistenza sanitaria a vita. Decisioni che sembrano segnare la fine di un lungo e difficile iter legale e l’inizio, forse, di un riconoscimento morale più ampio. Ma vi sono sentenze in gran parte d’Italia dei tribunali civili che hanno anche attribuito ai congiunti il risarcimento del danno parentale.
Uno dei principali ostacoli al riconoscimento dei benefici riservati dalla legge alle vittime dell’Uranio impoverito ed ai loro superstiti è rappresentato dalla prova del nesso di causalità tra l’esposizione all’agente tossico e l’insorgenza di malattie neoplastiche, considerate multifattoriali. «Sotto tale profilo – sottolinea l’avvocato Salvatore Ferrara – va ricordato che, come ha affermato recentemente la Cassazione, con riferimento ai benefici per i militari esposti all’uranio impoverito o ad altri agenti inquinanti, il nesso causale con le patologie si presume. Sarà dunque l’Amministrazione a dover dimostrare il contrario».
I poligoni nazionali: la Sardegna come simbolo
Il nodo dell’uranio impoverito non riguarda solo i teatri esteri. In Italia, il caso più emblematico è quello dei poligoni sardi: Quirra, Teulada e Capo Frasca. Le indagini dell’ARPAS e dell’ISPRA hanno documentato nel tempo presenza di metalli pesanti e nanoparticelle nei terreni e nei capi di bestiame. Nel 2011 la Procura di Lanusei (NU) aprì un’inchiesta per disastro ambientale, poi chiusa con assoluzioni ma con riscontri tecnici di contaminazione di tipo militare. Nessuna prova diretta dell’uso di uranio impoverito, ma una conferma chiara: nelle aree militari italiane esistono residui pericolosi da attività di tiro e sperimentazione.
Oggi, i comitati civili e le associazioni di ex militari chiedono trasparenza sui risultati delle analisi e un piano nazionale di bonifica e sorveglianza sanitaria. La Sardegna resta il simbolo di una questione più ampia: il diritto dei cittadini e dei militari a conoscere l’impatto ambientale e sanitario delle attività belliche.
L’attualità e le responsabilità
Nel 2025, il quadro resta incompleto. Non esiste un censimento ufficiale delle vittime, mentre l’Osservatorio Vittime del Dovere stima oltre 400 decessi e migliaia di militari malati. La Difesa ha avviato nel 2023 una ricognizione interna sui casi di contaminazione, ma senza pubblicare dati definitivi. Sul piano normativo, la Legge 206/2004 e il DPR 243/2006 equiparano ormai le vittime dell’uranio a quelle del terrorismo e della mafia. Tuttavia, le famiglie attendono ancora l’applicazione piena dei benefici e una forma di risarcimento morale che vada oltre la mera indennità economica.
Le domande aperte
Rimangono diversi quesiti che ad oggi non hanno ancora una risposta definitiva o che meritano ulteriori approfondimenti. Quante persone sono state realmente esposte e dove? Perché i protocolli di monitoraggio sanitario non sono mai diventati sistematici? Cosa impedisce la pubblicazione integrale dei dati ambientali dei poligoni? E, soprattutto, quanto tempo serve ancora perché lo Stato riconosca pienamente le proprie responsabilità? Intendiamo fare da megafono per chi ha sofferto e soffre tuttora raccontandone le storie e difficoltà quotidiane. È quindi importante fare il punto con alcuni legali che hanno seguito e seguono tutt’oggi le vicende giudiziarie di chi ha deciso di lottare fino in fondo per la verità ed il riconoscimento dei propri diritti. Approfondire l’aspetto scientifico, elemento rilevante in questa vicenda, e sono molti gli istituti che si occupano di questo e gli studi realizzati ad oggi.
Tiriamo le somme
Dopo oltre due decenni, la verità giudiziaria sembra essere chiara: l’esposizione a uranio impoverito ha avuto effetti reali sulla salute di migliaia di militari. Ma la verità politica e istituzionale resta in parte taciuta. Oggi l’urgenza non è più solo fare giustizia, ma preservare la memoria, perché ogni caso dimenticato è una ferita aperta nella coscienza civile del Paese. Tra omissioni, testimonianze e sentenze, l’Italia fa i conti con un capitolo oscuro della propria storia militare. “Non si tratta più di stabilire se sia accaduto, ma di capire perché lo abbiamo taciuto così a lungo.”
Non intendiamo in alcun modo mettere in discussione il valore e il sacrificio delle Forze Armate. Vogliamo però ma dare voce a chi, da servitore dello Stato, chiede verità e giustizia.
Mauro Faso







































